In arrivo / Cena Nº102 - Giovedì 13 Febbraio 2025

Guerre culturali e neoliberismo

con Mimmo Cangiano

Politically correct, identity politics, woke, cancel culture, diversity management, pink- o rainbow-washing sono formule ormai diffuse e sciorinate in tutto il mondo occidentale, importate dagli Stati Uniti dove da molti anni rappresentano croce e delizia della comunicazione, dei posizionamenti etico-politici, dei codici sociali, educativi e comportamentali. In questo quadro, tutta una serie di temi – differenza, marginalità e specificità identitaria – sono diventati il centro delle attuali culture wars, delle battaglie culturali combattute in nome di genere, etnicità, classe, corpo e orientamento sessuale, contro ogni rimozione o omologazione del “particolare” nel discorso politico, istituzionale, pubblico.

Dei movimenti che sono portatori di queste tematiche è possibile evidenziare le stratigrafie ideologiche, i piani simbolici e le contraddizioni pragmatiche che si intrecciano a queste “guerre culturali”, la cui portata emancipativa però non può eludere una domanda di fondo: la loro cultura progressista è in grado di sbrogliarsi dai vincoli del sistema neoliberista e di sottrarsi a esiti ambigui, a derive individualistiche o a manipolazioni funzionali? Una trappola per un movimento di emancipazione.

La tesi di Mimmo Cangiano* è che da questa trappola è possibile uscire solo a condizione che le lotte in questione riconoscano e contrastino la sfera materiale dentro cui si originano e muovono: quella della struttura economica capitalista che, con le sue modalità di produzione, lavoro e consumo, genera oppressione a partire da forme (sempre meno evidenti) di sfruttamento. In altri termini, la questione della marginalità non è scindibile dal tema della classe sociale, concetto che consente appunto di non eludere una questione fondamentale: che la modalità storica in base a cui si struttura la riproduzione materiale della società genera condizioni costitutive e vincolanti per la vita sociale degli individui che ne fanno parte, non meno che per lo stesso sviluppo di ulteriori forme espressive (culturali, istituzionali) della società.

A partire dalla domanda di una vera alternativa, “di un diverso modo di vivere che chiuda davvero con sfruttamento e oppressione”, proveremo a smascherare, insieme a Mimmo Cangiano, la dominante persistenza di un proteiforme neoliberismo, così capace di mettere a profitto per i propri scopi anche le direttive ideologiche progressiste e i sistemi di inclusione delle differenze.

* Mimmo Cangiano insegna Critica Letteraria e Letterature Comparate presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Tra le sue opere, La nascita del modernismo italiano. Filosofie della crisi, storia e letteratura (1903-1922) (Quodlibet, 2018), Cultura di destra e società di massa. Europa 1870-1939, (Nottetempo, 2022) e Guerre culturali e neoliberismo (Nottetempo, 2024). Si occupa principalmente di modernismo europeo, marxismo e cultura di estrema destra.

Immagine di copertina: Dentro e oltre le guerre culturali

1. Woke e guerre culturali: di quale conflittualità si parla?

A cosa si riferisce il concetto di “guerre culturali”? Introdotto agli inizi degli anni ’90 dallo storico della cultura James Davison Hunter in un saggio intitolato Culture Wars: The Struggle to Define America, il termine tende a identificarsi in quegli anni con l’espressione “politicamente corretto” (politically correct), un orientamento ideologico e culturale per cui le opinioni devono apparire esenti, nella forma linguistica e nella sostanza, da pregiudizi razziali, etnici, religiosi, di genere, di orientamento sessuale o relativi a tàità fisiche o psichiche della persona.

Trent’anni dopo, l’espressione “guerre culturali” si è espansa fino a definire tematiche radicali, che dividono cultura progressista e cultura conservatrice, e interessano processi di disumanizzazione e inferiorizzazione nei confronti di un individuo, una comunità o una cultura, presenti nella società attraverso forme di oppressione, esclusione e violenza diretta.

Per Mimmo Cangiano, è difficile definire la portata politica effettiva delle “guerre culturali”. La possibilità di definire la questione della conflittualità di cui esse sono portatrici dipende dalla risposta che si dà a questa domanda: quale impatto trasformativo dell’esistente, in particolare nel funzionamento della struttura capitalistica della produzione e della riproduzione sociale, hanno le tematiche delle guerre culturali? Ma, nella misura in cui le guerre culturali – su questioni controverse relative ai diritti universali – si sviluppano al di fuori della connessione con il piano materiale del funzionamento economico del capitalismo, quali sono le conseguenze politiche e culturali ai fini del riconoscimento delle istanze di emancipazione della cultura progressista, e in particolare del movimento Woke (“stare sveglio”, “stare vigile”)?

(1, continua)

2. Guerre culturali: il funzionamento (non)ideologico del capitale e il gioco all’egemonia culturale

Apliticamlicare le tematiche delle «guerre culturali fuori da una connessione con il piano materiale», per Mimmo Cangiano, significa «applicarle in modo liberal, [che] vuol dire applicarle in modo culturale». E su questo terreno ideologico, il posizionamento del capitalista, progressista o meno, è, e rimane, in funzione delle strategie di mercato – per soddisfare le richieste degli investitori e dei consumatori. L’adozione di politiche aziendali rivolte al riconoscimento su base identitaria della soggettività dei lavoratori e delle lavoratrici – come i programmi dedicati alla diversità, equità e inclusione (DEI) – non intacca l’esigenza di mantenere il più ampio “potere” capitalistico di flessibilizzazione del mercato del lavoro. In questo senso, «il capitale non ha ideologia».

Non c’è identità immediata tra “piano materiale” (struttura) – la sussistenza di un processo di costrizione, per la maggior parte degli individui, all’attività lavorativa come sola condizione d’esistenza, per “guadagnarsi da vivere” – e le istanze culturali e istituzionali (sovrastruttura). La relazione tra le due dimensioni può invece configurarsi in modalità diverse, dalla più conservatrice a quella più progressista, tutte possibili in diverse fasi dei capitalismi storici, e nella lotta interna ai capitalismi attuali.

Pensare la mediazione è il problema. Quali cortocircuiti pratici e ideologici, all’interno della teoria delle “guerre culturali”, possono infatti nascere dall’affermazione di un’identità immediata tra diritti universali (smascherabili come prerogativa del solto uomo bianco, maschio e eteronormale) e modo di produzione capitalistico? Per Mimmo Cangiano, alla fine si produce l’equivoco che la lotta politica contro una delle due dimensioni, le condizioni della riproduzione materiale (struttura) o le rappresentazioni culturali e istituzionali (sovrastruttura), significhi immediatamente lotta contro il sistema che produce quella relazione determinata tra le due dimensioni. E con il rischio conseguente di ridurre la conflittualità politica a una piatta visione culturalistica.

E per rendersene conto basta osservare come, le istanze di emancipazione della cultura woke, soprattutto in assenza di un progetto trasformativo della società, vengano qualificate, da parte della cultura di destra, in una sorta di gioco all’egemonia culturale, come pure costruzioni arbitrarie. Ma che la reazione, da parte della sinistra, a questa deriva ideologica finisca per negare l’esistenza stessa delle tematiche delle “guerre culturali” (come il “politicamente corretto”) non è una soluzione.

(2, continua)

3. Soggettività collettive della “vittima”: lotta identitaria e lotta di classe

C’è una soggettività collettiva – un “noi” – che si esprime nelle guerre culturali. È quella identitaria che si costruisce nella lotta politica a partire da “quel che si è”, da una specificità soggettiva, dalla condizione di un’identità di appartenenza, anche multipla – per genere, orientamento sessuale, razza, abilità psico-fisica, retroterra socio-economico o altro ancora. A far emergere a coscienza la condizione di oppressione, cui i vari gruppi identitari sono soggetti, è una lettura etico-politica a carattere simbolico-culturale, una lettura, in cui la figura della “vittima” è la chiave interpretativa principale.

In questa fase storica, come spiegare la riduzione della lotta politica alla sfera soggettiva della personalità individuale? E, inoltre, la prevalenza della figura della vittima come si riflette sul piano della socializzazione della lotta politica stessa?

Per Mimmo Cangiano, è singolare che all’amplificarsi, nella sfera etico-simbolica, della lotta politica corrisponda una sua riduzione nella sfera materiale, economica della vita sociale. Perché, appunto, pur nella rilevanza della sfera culturale identitaria (l’essere donna o l’essere non-bianco, ad esempio), quest’ultima non smette di sottrarsi alle mutevoli e flessibili relazioni economiche del mercato del lavoro, alla costrizione cioè di “vendersi per campare”. La posizione sociale di un individuo, per quanto soggetta a “regimi di oppressione” identitaria – i più diversi e sovrapposti (intersezionalità) –, è di fatto definita in ultimo dalla sua funzionale appartenenza al processo di produzione capitalistico. Una lotta politica, per essere trasformativa della società, deve poter continuare a configurarsi come lotta di classe.

Qual è allora l’apporto delle guerre culturali nella comprensione della composizione di classe? E, per contro, come è possibile che il “portato finale” delle guerre culturali sia arrivato a giocare le politiche dell’identità contro il concetto di classe, della classe lavoratrice come “soggetto rivoluzionario”?

(3, continua)

4. Guerre culturali di sinistra e neoliberismo, un “sintomo” del capitale

«In una politica sempre meno in grado di dare risposte sul piano economico, e quindi sempre più portata a dare risposte sul piano etico-culturale, noi tendiamo a separarci ideologicamente da un lato e dall’altro, a seconda di ragioni etico-culturali».

Al contrario, la conflittualità interna al governo effettivo di un’economia, che mira a integrare spazi, soggetti e pratiche della vita sociale in processi globali, anche violenti, di mercificazione, è invece l’espressione degli interessi di gruppi, in competizione tra loro, della classe dominante capitalistica. Interessi, la cui espressione culturale (sovrastrutturale) – per esempio, sulla questione dell’immigrazione o della gentrificazione urbana –, è utile a produrre egemonia culturale e a generare consenso politico. E, in questo senso, la conflittualità ideologica è “indifferente”, è già sempre ricompresa nella dinamica di un’economia orientata – jn modalità antagonista, la concorrenza – sempre solo alla valorizzazione del capitale.

Per Mimmo Cangiano, il problema è riconoscere che le lotte sovrastrutturali, che attengono a questioni etico-culturali e alle relative istituzioni rappresentative, sono tutte un “sintomo” del capitalismo. E fino a che il posizionamento politico di un movimento, di una lotta di rivendicazione, non “interessa” il piano strutturale del modo di produzione, per quanto possa assumere in alcune situazioni e fasi storiche della società una valenza progressista, non necessariamente è anti-capitalista. Anzi, a volte, può risultare pienamente compatibile con l’ideologia dominante, come è oggi quella neoliberista.

E, a questo proposito, Mimmo Cangiano invita a riflettere su una “suggestione”, che una lettura sintomatica del linguaggio culturale dominante è in grado di portare allo scoperto, sul fatto cioè che «c’è una stranissima consonanza tra le parole d’ordine delle guerre culturali di sinistra e le parole d’ordine del capitalismo neoliberale». Un elenco di parole interessante.

Ma una cultura di sinistra che non sappia riconoscersi come “sintomo” di ciò che accade sul piano di una prassi che è riconducibile all’organizzazione economica capitalistica, che possibilità ha di intervenire nella costruzione di una soggettività collettiva rivoluzionaria?

(4, continua)

5. Nuova sinistra e guerre culturali: potere/oppressione vs capitale/sfruttamento

Da quale teoria nasce la possibilità, per le guerre culturali di sinistra, il movimento woke, di concepire la lotta politica come separata dalle dinamiche concrete della struttura economica del modo di produzione capitalistico? Per Mimmo Cangiano, esiste una filiazione tra le posizioni teoriche derivanti dal post-strutturalismo francese (Foucault, Baudrillard, Derrida, Deleuze) – che viene a sostituire, a livello accademico, la posizione in precedenza occupata nella cultura di sinistra dal marxismo – e le guerre culturali.

In questo passaggio accademico, a partire da Michel Foucault, a prevalere è il tema del potere. All’interno di questa tradizione teorica, quali contorni viene ad assumere il concetto generico di potere? Una volta che la funzione del potere sia definita nei termini di una pratica discorsiva – universalista, monologica, definitoria e classificatoria di ciò che è oggetto di conoscenza, di un sapere –,  quali effetti produce ai fini dell’analisi della società capitalista lo spostamento della lotta politica sul piano ideologico-culturale?

E, in modo specifico, la lotta culturale che “smaschera” come l’uso ideologico, strumentale, del discorso sull’universalità occidentale dei valori progressisti – i diritti di uguaglianza, libertà, parità di genere – serva a perpetuare la realtà capitalista, il suo sistema di oppressione, anche violenta, e di mercificazione della vita sociale, significa anche lotta contro la dipendenza da quel sistema economico, di sfruttamento del lavoro, che in occidente ha prodotto la formulazione di quei valori?

Quali sono invece le radici storico-sociali di questa critica del capitalismo – che Luc Boltanski definisce “critica artistica” – concentrata sul tema dell’oppressione della soggettività individuale, sulla reificazione di ogni aspetto dell’esistenza umana? E in che misura il tema dell’oppressione – un tema woke – ha a che fare con l’effettiva valorizzazione della personalità, con la generalizzazione del diritto alla libera espressione (creativa) dell’individuo?

(5, continua)

6. Il capitalismo vende soluzioni a sé stesso: dall’idea di “spazi liberati” collettivi alla cura di sé individualistica

Quale modello di “governo sociale” disciplina la nostra vita quotidiana? L’offerta di uno stile di vita della “tradizione” comunitaria, del ritorno a un “mondo semplice” e “frugale” – immagine residua di una società premoderna – permane solo ormai nello spazio della promozione pubblicitaria, e al più nell’immaginario letterario.

Il regime postmoderno della vita sociale si fonda, al contrario, su un continuo adattamento alle mutevoli esigenze della produzione e del consumo, improntate alla spietata concorrenza di un’economia capitalistica globale. È il paradigma neoliberista della società. Quale possibilità è data allora di resistere alla riduzione “economica” della vita sociale? Che al più consente l’esistenza marginale di “spazi liberati” collettivi, ma che, appunto, finisce per appiattire l’esistenza individuale sull’imperativo della prestazione, della performance, sulle pratiche di una diffusa competitività sociale, quale criterio di giudizio sul valore delle soggettività.

Quale possibilità di uscita da questa, quasi inevitabile, gestione individualistica della propria vita? Che non sia appunto la soluzione offerta dal paradigma neoliberista del capitalismo, di una “medicalizzazione”, nella cura di sé, di un modo di vivere le cui patologie è esso stesso a  produrre con efficacia con la sua azione di ortopedia e di pedagogia sociale. Quale soluzione alla “depolitizzazione” del legame sociale, che trasforma effettivamente la vita individuale in quella di un individuo isolato, atomizzato nella sua necessità di guadagnarsi da vivere, e che tende a smantellare ogni “differente” residua istanza di socialità?

(6, continua)

7. Pensare l’alternativa all’esistente: immaginare/sperimentare un futuro diverso

È vero, oggi sembra impossibile pensare un’alternativa all’esistente. E l’esistente è il sistema economico e politico del capitalismo. In assenza della possibilità di una scelta non resta che il rifiuto o, almeno, la messa in discussione del contesto, del sistema nei cui termini la maggior parte degli individui, imprigionata in dinamiche esistenziali e lavorative senza più la possibilità di decidere della propria vita e del proprio futuro, è obbligata a un senso di rassegnata impotenza, di frustrazione.

Ma la possibilità di prefigurare un “futuro diverso” è davvero solo un esercizio di immaginazione? O non significa, invece, stabilire che il futuro può avere un effetto sul presente e, quindi, sperimentare fin da ora il potere dell’immaginazione nel realizzare una diversa comprensione della vita presente? A cominciare, cioè, con l’affermare che ciò che davvero vale la pena di vivere (valori) e di desiderare è una vita comune, che gli esseri umani possono esistere solo in una “dimensione collettiva”, nella necessità consapevole della loro stessa socialità.

Ma come una comprensione altra, una «visione diversa del futuro», non come un “altrove”, un “fuori”, un altro mondo, è poi in grado di dar vita a una trasformazione, a un cambiamento possibile dell’attualità del mondo?  Come – cosa che vale in ogni attività creativa – inventare nuovi modi di operare, una “nuova pragmatica”, come inventare nuove possibilità?  E, soprattutto, come, nella società del consumo e della produzione capitalista, riappropriarsi della possibilità di vivere una vita che non sia dominata da una condizione di mancanza o di precarietà lavorativa, che alimenta la costante frustrazione del desiderio individuale, e la subordina alla semplice sussistenza?

Di quale esperienza comune, da cui apprendere attraverso una pratica condivisa, abbiamo bisogno? A partire però da un apprendimento che sia di un ordine più elevato di quello nei cui termini comprendiamo il presente. Una questione epistemologica.

(7, continua)

8. “Materializzare” le guerre culturali sul piano dell’emancipazione dal capitale

Qual è il senso delle “guerre culturali” per la lotta politica? Le guerre culturali sono «motori di coscienza politica e anche motori di emancipazione» – comprendere le diverse modalità dell’oppressione cui sono soggette le vite dei singoli produce un effetto liberatorio. Ma come uscire da un’idea “culturalista” dell’azione politica, che restringe a intervento di ordine etico-simbolico – assegna valore all’individualità dei soggetti subalterni su base identitaria, come effetto di una costruzione culturale – la lotta all’ingiustizia sociale in regime di economia capitalistica?

Per Mimmo Cangiano, il punto della questione sta «non nel rifiutare le guerre culturali, ma nel “materializzare” le guerre culturali, cioè riportarle alla loro componente materiale», «al loro legame con il piano del lavoro», perché è il piano «dove può cadere la “balcanizzazione” del fronte dei subalterni, e aprirsi una politica delle alleanze», oltre cioè la frammentazione dei soggetti di una potenziale lotta politica anti-capitalistica.

E tuttavia qual è il contributo delle guerre culturali alla lotta politica? Cosa insegnano le guerre culturali e il loro retroterra teorico di riferimento? Come le questioni identitarie (di genere, razza, abilità psico-fisica e orientamento sessuale), che intervengono nella creazione e nello sviluppo delle diverse soggettività, si intrecciano con il tema di fondo di uno stato permanente di espropriazione dei mezzi di sussistenza funzionale all’economia capitalistica?

È il concetto di classe, secondo Mimmo Cangiano, l’elemento che permette di “materializzare” le guerre culturali – perché si sta parlando di un rapporto sociale «brutalmente materiale» non riducibile appunto a semplice “discorso culturale”. Ma, in questa fase neoliberista della società – cioè dell’intervento dello Stato, in funzione della crisi espansiva dell’economia tardo-capitalista, nel garantire la subordinazione dispotica e brutale della società al processo di valorizzazione del capitale –, in questa fase, come è possibile organizzare una transizione verso un modello alternativo di società?

Un problema etico, anche: in un presente cui è «impossibile accomodarsi», come responsabilizzare le nostre vite per un futuro per il quale non rimane forse neppure più la speranza?

(8, fine)

9. Guerre culturali e neoliberismo – Momento conviviale 1

Guerre culturali sui social

Mimmo Cangiano: – È successa questa cosa, un’affermazione di Francamente [una cantante] sull’inno le come non inclusivo.  L’inno non è sicuramente un granché, però io sono molto affezionato a Mameli, è comunque uno che a 22 anni si è andato a fare ammazzare per… [la difesa della Repubblica Romana (1849)]
Elena Del Col: – Poi noi ci ricordiamo solo di Mameli che ha scritto le parole e non di Novaro… E lì, è un grande discorso sulla musica.
Mimmo Cangiano: – Goffredo Mameli incontra Michele Novaro e insieme scrivo un pezzo tutt’ora in voga per un verso.

10. Guerre culturali e neoliberismo – Momento conviviale 2

Un “mito tecnicizzato” (Furio Jesi) del fascismo

Mimmo Cangiano: – […] Gramsci aveva compreso il profondo legame fra miti identitari, tradizionalistici, ma salvifici e consolatori in senso lato [del fascismo], e invece quella che era, nascosta, la difesa di un modo di produzione capitalista, sempre più selvaggio, quello che chiamerà appunto americanismo. Jesi, tutto questo, lo chiamerà “mito tecnicizzato”…

11. Guerre culturali e neoliberismo – Momento conviviale 3

«La scuola non può essere un corpo estraneo alla società»

Manuela Lanari: –  Il problema è che la scuola sta annaspando in modo impressionante. Non trova una chiave di lettura… e tenta qualunque strada – dell’impariamo tutti insieme in ambiente di apprendimento cooperativo, ma anche un po’ da solo. L’idea qual è? L’essere inclusivi. Essere inclusivi… […]
Mimmo Cangiano: – Il problema è sempre quello: si chiede alla scuola di risolvere problemi che sono sociali.

12. Guerre culturali e neoliberismo – Momento conviviale 4

Una lettura dal blog “Il disertore” di Franco Berardi Bifo

Non si scrive il diario della discesa nell’orrore per il gusto idiota di spaventare i poveri lettori. C’è una sola ragione per farlo: tentar di comprendere quel che ci sta accadendo, e liberare la mente dalla speranza che non aiuta a capire e soprattutto non aiuta a salvarsi. Chi spera, chi crede che nella storia sia possibile salvezza, si lascia intrappolare nella guerra di tutti contro tutti. Disertare è un modo per capire. (Franco Berardi Bifo)

Filippo Barbera: –  Ma ha senso sperare? La speranza ha ancora senso?
Mimmo Cangiano: Io da un po’ mi dico che comunque spero di vendicarmi. La vendetta, secondo me, è un motore che può portare avanti. Non so se avremo giustizia, però spero ancora nella vendetta.