Che cos’è C O N D I R S I ? non è una buona domanda. Costringe a una definizione. E, anche se poi non se ne può fare a meno, meglio evitare qui di irrigidire e fissare ciò che invece è soprattutto l’esperienza di un flusso, una storia. Una storia che si fa, viene a comporsi, nella casualità degli incontri tra ospiti, a volte inattesi, a tavola.
Meglio quindi rifarsi a ciò che accade nell’esperienza conviviale, e assumerne il criterio regolatore di base. Anzitutto, nel mangiare insieme a tavola si fa esperienza di un comune processo metabolico – dal greco μεταβολή, “cambiamento” – un processo da cui dipende la sopravvivenza dell’«essere animale» che noi siamo. È, e a ricordarcelo è Gregory Bateson, un processo che al suo interno presenta un effetto paradossale: il mantenimento vitale di una creatura vivente, un parametro ‘conservativo’, richiede sempre, quasi per opposizione, una dinamica di mutamento, un processo di trasformazione.
Se ogni ricetta, presente in tavola, richiede la compatibilità, per non essere indigesta, con la fisiologia del nostro corpo, è nella sua varietà che si manifesta quella variazione di circostanze, quell’accadere di incontri, insomma una storia, attraverso cui ha preso forma la fisiologia del gusto di ognuno, e da cui in definitiva dipende il piacere della tavola. E poi la convivialità della ricetta offerta è a sua volta una proposta di confronto, di apertura a un’esperienza di contatto, che è propria della vita in comune che, dal latino munis, -e, radice di “comune” appunto, è l’obbligo di contribuire alla reciprocità stessa, e lo è nella forma del dono, di una reciproca intensità.
L’offerta reciproca del cibo è la nostra costitutiva apertura alla socialità, e ci consegna all’incontro, ci espone alla contaminazione dell’alterità e della pluralità, alla dipendenza e alla cura. Questa socialità, questa disposizione alla convivenza intelligente, di cui il mondo, nell’urgenza del presente segnato dalla violenza del suo saccheggio e dal rischio della sua catastrofe, sembra difettare, è ancora qualcosa da costruire. È infatti sotto i nostri occhi il carattere violento, non fosse che per la sua accelerazione, del cambiamento in atto nel mondo: il processo della sua interdipendenza globale, della sua trasformazione in società globale, appunto. Ed è più che un sospetto che qualcosa è ‘in ritardo’ nel sistema culturale, a partire dall’istituzione educativa, che qualcosa è obsoleto nell’immaginario della vita mentale con cui si tenta di attrezzare una comprensione della realtà in cambiamento.
Come allora apprendere la capacità di governare il cambiamento di un mondo, la cui catastrofe è già annunciata, per riuscire almeno a scongiurarne l’esito? Come trovare una via di uscita dalla trappola per cui l’«esperienza» che facciamo della realtà del mondo è data nei termini del sistema, del contesto sociale – ovvero un inferno – entro cui si produce il problema stesso della sopravvivenza umana?
Nella conversazione a tavola emerge più spesso tra gli interlocutori una domanda che attiene a un “senso comune” di incertezza riguardo alla comprensione del mondo – una condizione da cui, per altro, ha preso vita la pratica conviviale di C O N D I R S I. Ma, attorno alla tavola, la conversazione – un dispositivo di “messa in comune”, di messa a disposizione di strumenti per comprendere «ciò che accade» intorno a noi – diviene “modello” di un processo di ricerca aperto, fluido, è l’offerta di un apprendimento condiviso.
La domanda: a che punto siamo? intende rimarcare una tale esigenza.