Come parlare di bisogni anti-ecologici in una società a economia capitalistica?

Come parlare di bisogni nella prospettiva di una “cultura di resistenza”? Se la realizzazione individuale consiste, oltre che nel soddisfare un bisogno attraverso il consumo, nell’appagare il desiderio stesso di consumare, in base a necessità, a “bisogni indotti” via marketing (mode); e se poi la performance consumistica come stile di vita si è “normalizzata” all’interno della società, al tal punto che a essere consumata è l’esistenza tutta dell’individuo – dall’esposizione sui social network commercializzati alla turistificazione della vita urbana –, come riuscire a parlare dell’impatto ecologico della nostra “propensione” al consumo?

Il rischio è applicare alla natura dei bisogni una critica moralistica. In una società a economia capitalistica, l’accesso a beni di consumo – “superflui” o “necessari” – attraverso la modalità sociale della loro offerta, e cioè il mercato, è in effetti una cosa normale. L’induzione al consumo, che si realizza attraverso l’“invenzione” non tanto dell’utilità ma della desiderabilità di qualsiasi cosa, è oggi così pervasiva da fornire quell’orizzonte – valoriale, simbolico e culturale – per cui il senso del nostro stare al mondo non è pensabile al di fuori della realtà dell’economia di mercato capitalistica.

All’interno di questo orizzonte, come può un discorso produrre quell’alternativa radicale al modello di crescita della macchina capitalistica, che la transizione ecologica richiede? Eppure, la pandemia del 2020 avrebbe dovuto al riguardo insegnare qualcosa.

(6, continua)

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