A cosa si riferisce il concetto di “guerre culturali”? Introdotto agli inizi degli anni ’90 dallo storico della cultura James Davison Hunter in un saggio intitolato Culture Wars: The Struggle to Define America, il termine tende a identificarsi in quegli anni con l’espressione “politicamente corretto” (politically correct), un orientamento ideologico e culturale per cui le opinioni devono apparire esenti, nella forma linguistica e nella sostanza, da pregiudizi razziali, etnici, religiosi, di genere, di orientamento sessuale o relativi a tàità fisiche o psichiche della persona.
Trent’anni dopo, l’espressione “guerre culturali” si è espansa fino a definire tematiche radicali, che dividono cultura progressista e cultura conservatrice, e interessano processi di disumanizzazione e inferiorizzazione nei confronti di un individuo, una comunità o una cultura, presenti nella società attraverso forme di oppressione, esclusione e violenza diretta.
Per Mimmo Cangiano, è difficile definire la portata politica effettiva delle “guerre culturali”. La possibilità di definire la questione della conflittualità di cui esse sono portatrici dipende dalla risposta che si dà a questa domanda: quale impatto trasformativo dell’esistente, in particolare nel funzionamento della struttura capitalistica della produzione e della riproduzione sociale, hanno le tematiche delle guerre culturali? Ma, nella misura in cui le guerre culturali – su questioni controverse relative ai diritti universali – si sviluppano al di fuori della connessione con il piano materiale del funzionamento economico del capitalismo, quali sono le conseguenze politiche e culturali ai fini del riconoscimento delle istanze di emancipazione della cultura progressista, e in particolare del movimento Woke (“stare sveglio”, “stare vigile”)?
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