C’è bisogno di un lavoro emotivo in grado di riattivare la libertà di «dis-sentire» – un dissenso interno, un sentire che ci rimetta in contatto con la paura per il mondo, con il dolore dell’altro. Perché è, questa, la domanda che proviene della follia, di cui il dolore è la trama essenziale. Una domanda oscura.
Ma «che fare» per rispondervi? Perché, oggi, la vita emotiva è catturata tra due patologie del sentire: da un lato, dalla ottusa voracità emozionale della società del consumo e, dall’altro, da una spasmodica ricerca anestetica della società dello spettacolo, – patologie che ci lasciano nell’indifferenza per il dolore dell’altro.
Tra la figura del consumatore e quella dello spettatore, è possibile pensare a strategie di correzione delle patologie del sentire?
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