L’arte di vivere è un’affermazione contro la separazione dell’arte dalla vita. O meglio delle arti dalla vita.
L’arte di vivere, a differenza delle arti che, nel loro “specialismo”, si sono allontanate dalla vita, è un’arte povera, minore e diffusa e le sue materie prime sono le emozioni, le parole e le relazioni. Per questo occorre parlare di arte di vivere come arte relazionale.
L’arte di vivere, biotechnia, è l’arte delle relazioni, e non dei rapporti sociali codificati ed ereditati; è l’arte di praticare relazioni tra pari, di uscire dalla separazione, frammentazione, solitudine e isolamento, di resistere alle forze dell’omologazione e del controllo e, infine, di trasformare la crisi individuale in critica del legame sociale, passare dall’io al noi.
Ma di quali parole disporre per parlare di quei contenuti del disagio psichico che pervade l’esperienza della nostra vita di relazione? Contenuti che risultano più spesso relegati o, meglio, esiliati nell’oscurità dell’anima. È forse per questo motivo che facciamo così fatica a comprendere ciò che ci tiene insieme?
Ecco, allora, Orfeo, vale a dire l’arte poetica, il semplice raccontare, per portare alla luce e alla condivisione i nostri oggetti psichici esiliati. Orfeo, il poeta iniziatore dell’arte della parola e della musica, degli stati estatici (ekstasi, trance e stati alterati di coscienza), incantatore delle bestie feroci e, soprattutto, bestie intrapsichiche. La sua discesa negli inferi, la katabasi, alla ricerca di Euridice, alla ricerca dell’eros, è il viaggio archetipico che ci tocca, e tocca a tutti noi.
Orfeo abita il mistero della vita e della morte. Ecco perché ci rappresenta.
Ad aiutarci a camminare in questi territori dell’anima ci sarà Epaminondas Thomos.
1. L’arte di vivere (βίος-τέχνη) e lo stupore (θαύμα)
«È più facile creare senza dover rispondere della vita, ed è più facile vivere senza tener conto dell’arte» (Micail Bachtin).
È più facile sperimentare la rottura della relazione tra arte e vita. È la difficoltà di sentirsi responsabili della bellezza del mondo, della nostra stessa vita sociale. O forse, invece, è possibile pensare, a partire da quella rottura, una reciproca rispondenza della vita – come βίος, come modo di vivere, e non come semplice esistenza biologica (Ζωή) – con l’arte?
Per Epaminondas Thomos, è possibile se si fa dell’arte di vivere (ars vivendi, βιοτεχνία) un’arte relazionale, un’arte del processo che connette noi stessi con gli altri e con il mondo. A condizione, però, di riconosce due cose: la prima, che l’arte di vivere è un sapere pratico, artigianale, un pensare che nasce dalle pratiche corporee (la voce stessa), dal materiale emozionale del nostro stare al mondo; e, la seconda, che l’arte, anzi le arti, come la poesia, sono un linguaggio che orienta e guida la nostra vita di relazione, soprattutto, là dove il mondo degli altri si apre, nella sua ineludibile ambivalenza, all’imprevisto, allo stupore/miracolo (θαύμα) dell’incontro con la vita.
È allora che l’arte di vivere, nel suo farsi, diviene creativa, in grado di riparare la rottura, la frammentazione profonda della nostra vita sociale.
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2. Essere artigiano di forme nel linguaggio
L’arte di vivere è la capacità dell’individuo di entrare nel linguaggio (nei linguaggi), di farsi artigiano del linguaggio. Il cui fare è tanto più efficace quanto più si fa “gesto poetico”, un fare artistico, un modo di fare che induce l’immaginazione a inventare la capacità di disporre di sé, di riparare e curare sé stessi.
La resistenza che la complessità della vita ci offre, come dimostra Epaminondas Thomos, è un potente stimolo alla riflessione su “come” la nostra esperienza di relazione, di legame sociale, contenga la possibilità di generare noi stessi. Di produrre “forme” di uscita, per tutti noi, da quella condizione per cui un tempo si usava il concetto di “alienazione”: quella perdita di controllo sulla nostra esistenza, quell’impedimento a disporre di noi stessi in maniera ricca di senso, mentre siamo alle prese con la produzione delle condizioni sociali della nostra vita.
Oggi, quel concetto, sembra solo relegato negli ambulatori della clinica.
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3. Un’arte del processo (che si fa vivendo)
L’arte di vivere, per Epaminondas Thomos e Enea Solinas, è un’arte dei legami. E, proprio là, dove il contatto di sé con gli altri, con il mondo, sembra venir meno – al “grado zero” del contatto con il mondo, l’esperienza psicotica – proprio là, è possibile apprendere ciò di cui siamo fatti: che siamo i nostri legami.
Per paradosso, quel collasso della vita mentale nel nostro stare al mondo, che ci espone all’incomprensibilità, nel contatto con gli altri, quella perdita di senso non svela un “vuoto”, anzi, ci dice che siamo un corpo ancora pieno di passioni, un groviglio di affezioni, di pathos. Che è ciò di cui è fatta la nostra esperienza del mondo.
È, a partire da lì, che l’arte di vivere, arte povera, si interroga sulla “bontà” dei codici relazionali e comunicativi forti, che costituiscono le identità “normali” del vivere quotidiano, più spesso assoggettate a richieste di prestazioni elevate, di cui è l’individuo, nel suo isolamento, a doversi fare carico.
L’arte di vivere, quindi, è l’arte di praticare relazioni. È l’arte di uscire da quella situazione di “alienazione”, di frammentazione, solitudine e isolamento, delle nostre esistenze; che non vuol dire che ci sia qualcosa di perduto, da recuperare, ma, al contrario, che è un processo in avanti, che «si impara vivendo», un processo di trasformazione creativa del senso e delle identità sociali attraverso cui si fa la nostra vita, un processo di apertura a nuove e inedite possibilità di espressione.
L’arte di vivere, nella proposta di Epaminondas ed Enea, significa resistere alle forze dell’omologazione e del controllo, e, infine, di trasformare la crisi individuale in critica del legame sociale.
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4. L’arte e il problema del poter disporre di sé
Perché ricorrere all’arte, ai linguaggi dell’arte, nella “ricerca di senso” del proprio vivere? L’arte contiene forse la promessa di “poter disporre di sé” in un mondo, che è oggi il mondo globale capitalistico? Forse. A condizione, cioè, di riconoscere fino a che punto è possibile fare del mondo in cui ci troviamo già da sempre, e che determina la realizzazione, nei suoi molteplici significati, della nostra vita, il presupposto della nostra libertà. E la cosa non è data per scontata.
L’arte di vivere, proposta da Epaminondas ed Enea, ci offre una strategia. Una pratica di appropriazione, un far “proprio” ciò che è “estraneo”, generativa e aperta, non già rivolta a un obiettivo o a un fine già definito; ma una pratica di trasformazione, un “camminare” a spirale, che si sperimenta in contesti, in reti di relazioni, che è essa stessa in grado di produrre.
È una pratica artigianale, una pratica corporea, sensibile, che stimola l’immaginazione, anzi la “follia” che ci appartiene, in forza della resistenza che il desiderio di “più” vita incontra nella realtà. E che ci istruisce: che, appunto, la realtà non è già data, ma risulta da un processo costante di “allucinosi”, di costruzione immaginava del nostro stare al mondo; e che il nostro stare al mondo è uno sforzo continuo di “negoziazione” (delle nostre percezioni, emozioni, aspettative, credenze e illusioni) con il mondo degli altri.
È da questa esperienza di resistenza che impariamo ad attivare la capacità di produrre relazioni. E tutto ciò forse non è dissimile dall’esperienza dell’amore.
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5. Appendice – L’arte di vivere come pratica dialogica
L’ascolto di alcuni testi poetici collettivi, prodotti da «Edizioni volanti» del Laboratorio Urbano – Mente Locale, ci riporta a una verità semplice: che il linguaggio si produce nella convivenza.
Siamo “esseri di parola”, nella prospettiva biologica ed evolutiva indicata da Humberto Maturana, per il quale «il linguaggio non si produce nel corpo come un complesso di regole, ma nel fluire delle coordinazioni comportamentali consensuali»; e, in altri termini, noi siamo esseri che dipendono, in pratica e in tutto, da quel modo di vita che Michail Bachtin chiama «dialogica»:
«La vita per sua natura è dialogica. Vivere significa partecipare ad un dialogo: interrogare, ascoltare, rispondere, consentire, etc. In questo dialogo, l’uomo partecipa tutto e con tutta la vita: con gli occhi, con le labbra, con le mani, con l’anima, con lo spirito, con tutto il corpo, con gli atti. Egli mette tutto sé stesso nella parola, e questa parola entra nel tessuto dialogico della vita umana, nel simposio universale… L’uomo con voce integrale entra in un dialogo». (in L’autore e l’eroe di Michail Bachtin, p. 331)
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