«È più facile creare senza dover rispondere della vita, ed è più facile vivere senza tener conto dell’arte» (Micail Bachtin).
È più facile sperimentare la rottura della relazione tra arte e vita. È la difficoltà di sentirsi responsabili della bellezza del mondo, della nostra stessa vita sociale. O forse, invece, è possibile pensare, a partire da quella rottura, una reciproca rispondenza della vita – come βίος, come modo di vivere, e non come semplice esistenza biologica (Ζωή) – con l’arte?
Per Epaminondas Thomos, è possibile se si fa dell’arte di vivere (ars vivendi, βιοτεχνία) un’arte relazionale, un’arte del processo che connette noi stessi con gli altri e con il mondo. A condizione, però, di riconosce due cose: la prima, che l’arte di vivere è un sapere pratico, artigianale, un pensare che nasce dalle pratiche corporee (la voce stessa), dal materiale emozionale del nostro stare al mondo; e, la seconda, che l’arte, anzi le arti, come la poesia, sono un linguaggio che orienta e guida la nostra vita di relazione, soprattutto, là dove il mondo degli altri si apre, nella sua ineludibile ambivalenza, all’imprevisto, allo stupore/miracolo (θαύμα) dell’incontro con la vita.
È allora che l’arte di vivere, nel suo farsi, diviene creativa, in grado di riparare la rottura, la frammentazione profonda della nostra vita sociale.
(1, continua)