Perché ricorrere all’arte, ai linguaggi dell’arte, nella “ricerca di senso” del proprio vivere? L’arte contiene forse la promessa di “poter disporre di sé” in un mondo, che è oggi il mondo globale capitalistico? Forse. A condizione, cioè, di riconoscere fino a che punto è possibile fare del mondo in cui ci troviamo già da sempre, e che determina la realizzazione, nei suoi molteplici significati, della nostra vita, il presupposto della nostra libertà. E la cosa non è data per scontata.
L’arte di vivere, proposta da Epaminondas ed Enea, ci offre una strategia. Una pratica di appropriazione, un far “proprio” ciò che è “estraneo”, generativa e aperta, non già rivolta a un obiettivo o a un fine già definito; ma una pratica di trasformazione, un “camminare” a spirale, che si sperimenta in contesti, in reti di relazioni, che è essa stessa in grado di produrre.
È una pratica artigianale, una pratica corporea, sensibile, che stimola l’immaginazione, anzi la “follia” che ci appartiene, in forza della resistenza che il desiderio di “più” vita incontra nella realtà. E che ci istruisce: che, appunto, la realtà non è già data, ma risulta da un processo costante di “allucinosi”, di costruzione immaginava del nostro stare al mondo; e che il nostro stare al mondo è uno sforzo continuo di “negoziazione” (delle nostre percezioni, emozioni, aspettative, credenze e illusioni) con il mondo degli altri.
È da questa esperienza di resistenza che impariamo ad attivare la capacità di produrre relazioni. E tutto ciò forse non è dissimile dall’esperienza dell’amore.
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