Che sacrificio si consuma nei templi dei grandi marchi della moda? Forse, davvero, quello della realtà – la «sostituzione del reale con segni del reale» (Jean Baudrillard).
L’abito, come qualunque altro oggetto “alla moda” da indossare, ci svela questa logica di appropriazione, di soddisfazione dei nostri bisogni “in eccesso”, sempre ancora mancanti, ancora sempre da soddisfare. E proprio perché la seduttività del brand sembra davvero confezionare – ancora Jean Baudrillard – un’iperrealtà «al riparo da ogni distinzione tra reale e immaginario, che lascia spazio solo per la ricorrenza di modelli e per la generazione simulata di differenze».
Nella ricerca compulsiva di segni, in gioco c’è la costruzione di ciò che siamo, della nostra identità. Una «distinzione» che opera però ancora sempre nella logica del nostro essere sociale, del riconoscimento da parte dell’altro. Che altro ci promette il brand?
Quale base, altrimenti, offrire al godimento? Dov’è, però, andato a finire il «qui e ora» delle nostre vite, del nostro corpo? E quello dell’altro, degli altri? Nell’epoca, soprattutto, della moltiplicazione, della disseminazione di noi stessi, della nostra immagine, entro la realtà tecnologica del virtuale?
(4, continua)