La questione del tempo ci invita a fare qualcosa di inusuale. E, cioè, a separare la spiegazione dall’esperienza che vogliamo spiegare. E, chissà perché, questo succede ogni volta che, a tavola, si comincia a guardare con sospetto un bicchiere di vino nella nostra mano. [Vedere Cena n°. 21° e 14° di C O N D I R S I]
Di solito, se diciamo: «Sul tavolo c’è un bicchiere di vino rosso» e qualcuno ci domanda: «Come facciamo a sapere che è così?», e noi rispondiamo: «Lo vediamo, è lì!», stiamo parlando come se la capacità di vedere fosse una nostra proprietà intrinseca che non si mette in discussione. Nella vita quotidiana, la cosa funziona e, di fatto, fa comodo che sia così.
Insomma, assumiamo che le nostre capacità cognitive sono proprietà che ci fanno essere quello che siamo, e in grado di interagire con la realtà. E infatti, Giuliano, nel frattempo, si è sorseggiato un goccio di vino.
La cosa si complica se però cominciamo a porci domande riflessive, come appunto: che cosa ci dice su noi stessi l’esperienza del passaggio del tempo? Viviamo davvero in un tempo presente che scorre tra un passato e un futuro?
È una domanda che ci costringe a chiederci qual è l’origine della nostra capacità di sapere in cosa consiste il fenomeno che chiamiamo tempo. Il passaggio del tempo è un’espressione fondamentale della realtà, che la nostra «percezione» è in grado di conoscere? O è una nostra «illusione»? E siamo in grado di distinguere tra le due cose?
Per Giuliano, a questo proposito, pare che ne vada del senso stesso della nostra libertà e, anzi, della nostra stessa creatività. Perché, se così non fosse, come avere ancora il «senso della possibilità» nella nostra vita? Come pensare di «poter fare altrimenti»?
(3, continua)