Il curatore d’arte è un professionista che si prende cura dell’opera e delle storie che la attraversano, e prolunga il lavoro dell’artista in un identico atteggiamento, premuroso e attento, verso ciò che viene creato.
Seguire, passo dopo passo, la creazione di un’opera d’arte richiede una partecipazione fisica ed emotiva, che evoca quel «preoccuparsi», quell’«avere pensiero di», anche ossessivo, che è alla radice della parola «cura» (da Giovanni Semerano, Le origini della cultura europea). E, anzi, è proprio la creazione artistica ad aprirci a tutta l’ambivalenza di quell’esercizio esistenziale che è il «prendersi cura di sé» (Sophie Calle, Prenez soin de vous).
L’esperienza di Stefano Riba ci aiuterà a esplorare il rapporto che hanno con il termine “cura” le coppie artista/curatore, artista/gallerista, artista/allestitore, dove ogni binomio suggerisce delle visioni diverse del termine.
1. Una provocazione per il giovane curatore
Nella storia dell’Occidente, in prevalenza, l’attività pratica, puramente tecnica, è stata soggetta a una sorta di svalutazione. Irrilevante più spesso, quando non estranea dal compimento di fini più elevati per la vita umana.
In epoca moderna, con l’artista rinascimentale, il fare artistico sembra sottrarsi a questo destino. E, per quanto non esista un’arte senza tecnica, noi finiamo per attribuire una differenza radicale all’attività artistica rispetto al lavoro artigianale, e alla pratica lavorativa. Resta il fatto, per parafrasare René Magritte, che l’idea di un’opera d’arte non è ancora un’opera d’arte.
È giustificata questa differenza? Dove risiede? Dentro l’individuo o nella società?
E, a sua volta, la spinta che obbliga all’attività espressiva ha qualcosa da dire su come il riconoscimento della pratica lavorativa si struttura nella nostra società?
Eppure, ad ascoltare Stefano, scopriamo che quel che ci mette nel suo lavoro, la «cura» del suo fare, con il suo impegno di curatore, con la sua aspirazione e le sue difficoltà, è rilevante per tutti noi proprio in relazione a questi importanti temi più generali, non solo per il passato e per il presente, ma anche per il futuro.
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2. L’arte va al mercato globale
Durante la cena, è venuto fuori che l’artista sembra godere di una posizione di privilegio sociale. È quello accordato alla sua «autonoma creatività», a quella spinta – una sorta di interno «furore sacro» – che obbliga l’artista a perseguire un’intensa attività espressiva. L’artista non deve far altro che rivolgersi all’interno, su sé stesso, a differenza di chiunque altro, la cui attività è rivolta all’esterno, verso la società.
È, in fondo, questo, un privilegio accordato alla soggettività, che è in eredità all’uomo moderno fin dall’epoca rinascimentale, in cui l’individualità dell’artista comincia a emergere nella società.
E, infatti, chi di noi, in qualche modo, non vorrebbe poter godere di questa prerogativa: che la nostra più vera identità stia dentro di noi, indipendentemente da come ci tratta la società? E, soprattutto, indipendentemente dalla necessità di guadagnarci da vivere?
Ciò vuol significare che «siamo tutti artisti»? Almeno, a condizione che sia possibile coltivare il nostro talento creativo. Appunto, non è così, ma ce ne rimane l’illusione.
Oggi, però, l’autonoma originalità dell’artista sembra avere un costo: la misura della sua affermazione finisce per consegnarsi a quella dipendenza sociale, a quelle relazioni di potere (del collezionista, del mercante d’arte, del gallerista, grande o piccolo), il cui esito è il mercato, ormai globale.
Non c’è, davvero, un’altra più solida base sociale per la creatività? Non c’è un altro modo di «averne cura», che possa riguardare tutti?
(Continua, 2)
3. È arte? Se va a finire sul divano!
La fruibilità dell’opera d’arte sembra portare in superficie le relazioni di potere che si stabiliscono in forma di mercato tra l’artista e il collezionista. Un percorso che, nel peggiore dei casi, finisce dentro una cassa, nel migliore, ad arredare la casa del collezionista, sopra il divano.
È questa ambizione «da divano» ciò che, per finire, consente a noi tutti il godimento della bellezza artistica, la sua circolazione nella società?
(Continua, 3)
4. L’arte della «cura» per il bello
[Contiene una proposta di riflessione che mi sta a cuore. E scusatemi per la lunghezza]
Che cosa ci rivela su noi stessi la «cura» per l’opera d’arte e, se si vuole, per il bello?
Il fare del curatore, una ricerca espressiva, è aperto all’incertezza.
E non a caso. È indice di uno stato dell’«arte d’artista», oggi.
Un/a artista ha un’ampia possibilità di seguire, nella sua produzione simbolica, la sua personale comprensione della coerenza e l’energia espressiva di quest’ultima. Al punto, come rivendica Ilaria, di essere libero/a di perseguire una propria personale risonanza espressiva, non limitata dalla rispondenza a un canone sociale stabilito della comprensione dell’arte. Anzi, per l’artista, il fatto di potersene fregare fa parte del gioco.
E bene fa Ilaria a ricordarci che il conflittuale e l’incompleto fa parte del percorso del fare artistico. Un processo che può anche fallire.
Che l’innovazione artistica abbia poi successo anche nella fruizione pubblica è un’altra faccenda.
Per fortuna, il valore dell’arte, come dimostra il riconoscimento postumo di opere, da Vermeer van Delft a Vincent Van Gogh, è indipendente dalla sua struttura sociale, cioè dal rapporto che intercorre tra chi produce arte e chi la richiede e la paga. È a questo scarto che crede Stefano.
Tuttavia, oggi, il successo dell’artista, della sua creatività individuale, risulta fortemente canalizzato entro le pratiche dominanti dei circuiti e delle istituzioni del mercato dell’arte (residenze, gallerie, prima piccole poi grandi, musei). E ciò oggi vincola a un canone dell’arte che, in definitiva, è finalizzato agli interessi (le quotazione di mercato) dei committenti finali.
È, allora, superfluo domandarci se un’altra fruizione finale è possibile? Che non sia nella cassaforte o sopra il divano del collezionista.
In ogni caso, l’autonomia della posizione sociale dell’artista è oggi garantita: va dall’artista, che è sullo stesso piano del pubblico che apprezza l’arte, all’artista che è così potente nell’influenzare il gusto all’interno delle istituzioni dominanti da poter fare a meno del pubblico.
È superfluo domandarci se la risonanza della creatività artista è costruibile su un’altra base sociale, più condivisa, più partecipata? A sostegno stesso dell’autonomia creativa dell’artista?
Ciò che accomuna il lavoro di curatela dell’opera d’arte e l’attività artistica stessa è il fatto di essere un’attività pratica aperta. La «cura» artistica si concentra sulla natura, immaginaria e fisica, dell’oggetto artistico, sulla cosa in sé; si confronta con il materiale, con i suoi parametri di qualità, da trasformare in espressione, in una produzione simbolica.
La creatività non è forse questo: l’espandersi di un’abilità pratica – imparare a svolgere bene il proprio lavoro – che si costruisce attraverso il ritmo di apertura ai problemi e ricerca di soluzioni, una sfida tecnica, ideativa e materiale insieme? E per cui qualcosa che prima non è viene a esistere? Come, appunto, ci ricorda Daniele.
Non è anche, questo movimento un modo più adeguato di vedere l’attività dell’essere umano che è in noi? Proprio perché coinvolge emozione e ragione, al tempo stesso, nella mano e nella testa.
Ed è questo il «bello»: l’artista ci ricorda che vedere incarnati in un essere umano i criteri della qualità del fare è preferibile. Cosa che appunto dà più senso alla nostra esistenza.
(Fine, 4)
5. Postilla – Parliamo d’arte…
Sulla progettualità di C O N D I R S I
«Se l’appetito termina nel bene e nella pace e nel bello, questo non significa che termini in obiettivi diversi. Per il fatto di tendere al bene, una cosa allo stesso tempo tende al bello e alla pace […]. Così chi vuole il bene, per ciò stesso vuole il bello.» (Tommaso d’Aquino, De veritate)
È un progetto sull’arte della cura, del prendersi cura.
Anzitutto, della cura del fare, di un fare espressivo, che ci coinvolge. La preparazione del cibo ci fa ritrovare insieme a tavola. È un fare che si realizza nella «messa in relazione», in un legame sociale di reciprocità.
La reciprocità è fondamentale. È un «fare intrecciato», nell’accogliere e nel restituire, in forma di dono, una condizione necessaria della cura, dove il dono del cibo – il cui archetipo è il dono materno del nutrimento – si trasforma, come all’interno di ogni società, in una pratica rituale e, in definita, in cultura.
E poi c’è, appunto, il parlarsi, il dirsi. In forma di conversazione. Non è un caso se questi due sfere di esperienza si presentano insieme. Ciò succede perché nella reciprocità del dono del cibo e del parlare si consuma un’identica esperienza, quella della comunicazione (da ‘communicare’ la cui base è ‘communis’, ‘cum’ = insieme, + ‘munis’ da ‘munus’ = ciò che è condiviso, carica, ufficio, dono).
A suo fondamento, c’è l’interdipendenza, reale e simbolica, nella successione delle generazioni, e l’interdipendenza diffusa tra individui partecipanti. Dove il valore della reciprocità non dipende dalla cosa donata o dalla sua misura, secondo un’espressione riduttiva, formale di un’equivalenza economica; dipende invece dalla speciale qualità umana che si esprime nella cura, nell’interesse per il legame, per la modalità condivisa della fruizione di ciò che è posto, per così dire, sulla tavola. Cibo e parole.
C O N D I R S I vuole essere questo: una pratica che dimostra non solo che parlare è fare qualcosa insieme, ma anche che del nostro parlare, durante una conversazione a cena, se ne può fare qualcosa. C’è bisogno di far posto alla cura per la convivialità, a un fare della «reciprocità», che renda desiderabile l’invenzione di una nuova pratica sociale
Nell’attuale fase di passaggio – così come si sono espressi i giovani nel corso della cena – forse vale la pena dilatare l’orizzonte del nostro fare, e della nostra ricerca, fino ad includervi il valore di legame della «gratuità», di un fare che si compie nella costruzione stessa di nuovi legami sociali.
È una sfida dell’oggi.
Fino a che punto è tollerabile che la creazione di tempo sociale disponibile, di tempo che non risulta valorizzabile ai fini della produzione della ricchezza immediata – e prova ne è la crescente inutilità economica e sociale del tempo di molti, soprattutto giovani – non si risolva nella formazione del «libero sviluppo delle individualità» (Karl Marx)
Fino a che punto è tollerabile che questa ricchezza reale della società non sia impiegabile per la libera espressione creativa dello sviluppo personale di tutti?
(5, fine)