Che la vita di un individuo sia orientata verso gli altri, nel bene o nel male, è un fatto fondamentale. E lo è anche il bisogno profondo di dare ad essa, nei nostri legami personali, un’espressione principalmente emozionale.
Aiutarci a sviluppare l’attenzione su questa espressione delle nostre vite è una finalità dei nostri incontri. Questa volta ci chiederemo con l’aiuto di Diego Iracà che è consulente in sociosomatica:
Quali emozioni proviamo nell’incontro con gli altri che abitano il nostro mondo di vita?
Quali sensazioni suscitiamo in coloro che ci incontrano?
Che ruolo ha la nostra sensibilità, e quella altrui, nel costruire e mantenere legami?
La sociosomatica è la disciplina volta allo studio sistematico e alla costruzione di modelli esplicativi relativi al rapporto di reciproca determinazione (o restrizione) tra la società (ovvero i processi sociali) e il corpo (o unità psicosomatica).
1. La parola che nomina un’emozione…
L’altra sera a tavola è andato in scena un conflitto. O, per lo meno, una tensione nei confronti del potere di rappresentazione della parola, una rappresentazione minimale, dell’esistenza umana stessa, dell’esperienza, e soprattutto là dove l’esperienza è quella relazionale, della nostra vita con gli altri.
Quel potere è stato messo in dubbio. Come nell’arte visiva o teatrale, la rappresentazione è sempre rappresentazione di qualcosa, non è però la cosa stessa. Eppure la parola (ma ciò vale anche per un gesto, un’azione o un’immagine) si presenta come quella cosa (magari anche immaginaria). E allora c’è sempre la possibilità che si instauri una certa confusione tra ciò che la parola rappresenta e la cosa rappresentata. Si crea così una situazione per cui questo rapporto deve essere reso più trasparente. Per esempio, possiamo accorgerci, come risultato di un desiderio inappagato (un fumatore) o sublimato (un ex-fumatore), che l’immagine della pipa non è la pipa, né, d’altra parte, il fumo che eventualmente potrebbe sprigionarsi dal fornello potrebbe mai essere l’effetto di un processo di combustione.
E allora è bene insinuare qualche dubbio critico. C’è chi, come Massimo, della parola diffida proprio, ne vorrebbe una riduzione, fin a quasi a cancellarla, per andare alla pratica, all’esperienza diretta, e coglierne soprattutto l’espressione emozionale, in una ricerca trasformativa, attraverso il corpo, dell’esperienza di sé.
Ma la cosa non sembra andare così da sola. Proviamo a mettere però un po’ d’ordine.
Abbiamo chiamato in causa le emozioni, le emozioni dell’incontro, nella relazione con gli altri che abitano la nostra vita. E la domanda di Diego Iracà è stata: in che rapporto sta la parola, che nomina la relazione, o l’incontro, e l’emozione che la relazione, o l’incontro, suscita? Sono le emozioni che qualificano il nome che diamo a una relazione o è il nome che diamo a una relazione che provoca le emozioni?
(1, continua)
2. L’altro tra parole ed emozioni
Di che è fatto l’incontro con l’altro o gli altri?
La parola non basta per saperlo davvero. Se diciamo che è una relazione affettiva, che la si definisca d’amore tra amici, tra amanti o che altro poco importa, c’è sempre il rischio che la parola che ci presenta (anzi ci ri-presenta) esplicitamente l’immagine, il senso di quella relazione, in realtà, si sostituisca all’esperienza effettiva dell’incontro con l’altro.
Il rischio è di perdere di vista la cosa stessa, l’esperienza che davvero è in gioco. E alla fine potremmo accorgerci che il nome per certe relazioni intime, magari fornite dalla lettura o dalla visione di narrazioni d’amore, può portaci a una rappresentazione fuorviante della realtà; e a ritrovarci, come in Madame Bovary di Gustave Flaubert, a dover combattere con la “finzione” dell’amore come contro mulini a vento immaginari cui, già per tempo, il Don Quixote di Miguel de Cervantes ci ha messo in guardia.
Prima di sposarsi, Emma aveva creduto di essere innamorata, ma la felicità che sarebbe dovuta nascere da questo amore non esisteva, ed ella pensava ormai di essersi sbagliata. Cercava ora di capire che cosa volessero dire realmente le parole felicità, passione, ebbrezza, che le erano sembrate così belle nei libri.
Intanto, seguendo le teorie nelle quali credeva, ella cercò di crearsi l’amore. In giardino, al chiaro di luna, recitava tutte le rime amorose che sapeva a memoria e sospirava romanze malinconiche, ma non sentiva agitarsi dentro di sé nessuna passione.
(da Gustave Flaubert, Madame Bovary)
Quindi la differenza tra l’esperienza che è in gioco, la “realtà”, e la sua espressione simbolica (anche se per parte sua il nome, la rappresentazione simbolica, costituisce un altro livello di realtà), e cioè tra verità e finzione, è una differenza, a volte inconciliabile, che non può essere liquidata così semplicemente.
Ma è davvero possibile, come preferisce Francesco, superare il bisogno di definire un’emozione, una relazione affettiva? E lasciare quindi che l’esperienza dell’emozione si esprima in sé stessa senza un nome?
O questo fare a meno di rappresentarsi, di esprimersi attraverso la parola, non sottende a sua volta un modo di affermare, in termini di desiderio di essere o di avere, un’emozione riguardo a sé stessi rispetto agli altri?
Possiamo davvero allora farne a meno?
Non avevano niente altro da dirsi? I loro occhi erano tuttavia pieni di una conversazione più seria; e, mentre si sforzavano di trovare delle frasi banali, sentivano uno stesso languore invaderli tutti e due; era come un mormorio dell’anima, profondo, continuo che dominava quello delle voci. Sorpresi di stupore da questa soavità nuova, non si preoccupavano di raccontarsi la sensazione o di scoprirne la causa.
(da Gustave Flaubert, Madame Bovary)
E quando la parola sembra in difetto?
Si era sentito dire tante volte tutte queste cose che ormai non avevano per lui più niente di originale. Emma non era diversa dalle altre amanti, e il fascino della novità, cadendo a poco a poco come un abito, metteva a nudo l’eterna monotonia della passione, che ha sempre le stesse forme e lo stesso linguaggio. Rodolphe non distingueva, da uomo pieno di senso pratico, la differenza dei sentimenti celata dall’identità di espressione. […] È necessario, pensava, ridimensionare i discorsi esagerati che spesso nascondono sentimenti mediocri: come se talora la passione eccessiva non traboccasse dall’anima servendosi delle più vuote metafore, perché nessuno, mai, può dare l’esatta misura delle proprie necessità, delle proprie concezioni, o dei propri dolori, dato che la parola umana è simile a un calderone incrinato da cui è facile trarre una musica adatta per far ballare gli orsi quando vorremmo commuovere le stelle.
(da Gustave Flaubert, Madame Bovary)
Quand’è così, è davvero possibile vivere l’immediatezza dell’emozione senza l’interferenza della parola? Una cosa si può dire, almeno: che questa insufficienza della parola mostra la difficoltà di dare espressione a quegli stati corporei che sono le nostre emozioni.
(2, continua)
3. L’emozione, un “corpo a corpo” del vivere
Le emozioni, nel contatto con gli altri, sono la trama di cui è fatta la nostra identità. Nell’accadere delle circostanze e nella casualità, a volte, degli incontri, ognuno di noi si muove in un ambito, in un intreccio reciproco di azioni, che sono le emozioni a rendere possibili, per modificare quelle stesse circostanze. È in questa tessitura emozionale dell’azione che ognuno di noi vive la sua vita come una storia o, forse, più storie.
È una storia che testimonia che ciò che siamo si costruisce «corpo a corpo»: fin dal seno materno, lungo tutta l’infanzia e, per il resto del tempo, è una costruzione, una interdipendenza della nostra vita dalla vita degli altri, dal corpo degli altri.
Come scrivono Humberto Maturana e Ximena Dávila:
Non c’è azione umana senza un’emozione che la fondi in quanto tale e la renda possibile in quanto atto. Ritengo inoltre che, affinché si dia un modo di vita basato sullo stare insieme in interazioni ricorrenti sul piano della sensualità, all’interno del quale sorge il linguaggio, sarebbe necessaria un’emozione fondante particolare, senza la quale questo modo di vita nella convivenza non sarebbe possibile. Tale emozione è l’amore. L’amore è l’emozione che costituisce quell’ambito di azioni nel quale le nostre interazioni ricorrenti con l’altro rendono l’altro legittimo nella convivenza.
(Humberto Maturana e Ximena Dávila, Emozioni e linguaggio in educazione e politica, 2006)
In definitiva, il problema dell’identità di sé è simultaneamente il problema dell’espressione di sé. Perché l’espressione di sé richiede una forma di risonanza esterna, un modo di vita che faccia dell’accettazione dell’altro, nel corpo dell’altro, la condizione di crescita del suo stare al mondo. È nella congruenza o meno degli esiti di questo «corpo a corpo», dove l’emozionalità consensuale, dell’amore in particolare, vi gioca un ruolo importante, che si sviluppa la nostra storia individuale.
Come ancora scrivono Humberto Maturana e Ximena Dávila, a proposito della storia della nostra specie:
la conservazione di un modo di vita improntato all’amore, l’accettazione dell’altro come legittimo nella convivenza, è una condizione necessaria tanto per il normale sviluppo fisico, comportamentale, psichico, sociale e spirituale del bambino, quanto per la conservazione della salute fisica, comportamentale, psichica, sociale e spirituale dell’adulto.
In senso stretto [cioè, in senso biologico] noi esseri umani nasciamo nell’amore e dall’amore dipendiamo. Nella vita umana, la maggior parte della sofferenza proviene dalla negazione dell’amore: noi essere umani siamo figli dell’amore.
(Humberto Maturana e Ximena Dávila, Emozioni e linguaggio in educazione e politica, 2006)
Perché, allora, in età adulta, si finisce per perdere di vista il processo, la storia delle interazioni, nella convivenza sensuale, di contatto con gli altri, che ci costituisce e ci realizza? Perché perpetuiamo l’immagine di un uomo adulto autosufficiente, di individuo chiuso, isolato, come di qualcosa di a sé stante, indipendente dagli altri? È un’immagine statica, senza processo, che appunto ignora che la costruzione della nostra identità è la storia della nostra stessa disposizione corporea, emozionale e sociale, pratica e spirituale insieme, di condivisione effettiva di un comune spazio di vita.
(3, continua)
4. Coscienza sociale, coscienza «embodied»
«Lo fanno ma non lo sanno», recita una tradizionale saggezza. A fare, è il nostro corpo. A non sapere, è la coscienza che ne abbiamo. La nostra cecità è quella verso le emozioni che, come le definisce Humberto Maturana, «sono disposizioni corporee dinamiche», che determinano o specificano distinti ambiti di azione all’interno dei quali accade il nostro fare e il nostro vivere. Una cecità che consegue proprio dalla cultura in cui viviamo, secondo la quale l’essere umano si distingue dagli altri animali per il suo essere razionale, per la sua razionalità.
Sostenere che la ragione caratterizza l’essere umano è un paraocchi, e lo è perché ci lascia ciechi di fronte all’emozione, che viene sminuita come qualcosa di animalesco o come qualcosa che nega il razionale. Vale a dire che, se ci dichiariamo esseri razionali, viviamo una cultura che sminuisce le emozioni, e non vediamo il reciproco e quotidiano legame tra ragione ed emozione che costituisce la nostra umana esistenza, e non ci rendiamo conto che ogni sistema razionale ha un fondamento emozionale.
(Humberto Maturana e Ximena Dávila, Emozioni e linguaggio in educazione e politica, 2006)
E prosegue: Non è la ragione che ci induce all’azione, ma l’emozione. La razionalità viene sempre dopo. Non solo perché è una disposizione della vita mentale che richiede l’apprendimento di specifici strumenti cognitivi, in una lunga pratica, anche faticosa, che modella, disciplina la vita dell’intero individuo; ma anche perché quella disposizione, per essere appresa, ha bisogno degli altri, di una pratica educativa condivisa all’interno di una cultura, di una società. Ciò che definiamo razionale non si giustifica in sé stesso ma solo in funzione delle premesse culturali e sociali entro cui viviamo, e abbiamo imparato a capire qual è il nostro posto nel mondo. È l’espressione di uno specifico orientamento della vita mentale, che a sua volta riflette una specifica disposizione emotiva di controllo, di maggior distacco riflessivo sull’esperienza. E, invece, finiamo per parlarne come se fosse sollevata al di sopra di sé stessa, come se avesse una validità universale indipendente da quel che facciamo nella realtà del mondo.
Allora, nell’osservare l’altro, che cosa conosciamo da ciò che fa dell’altro? E che cosa, nell’osservare l’altro, conosciamo di noi stessi?
Su invito di Diego Iracà, cominciamo a capire che porre al centro la riflessione su cosa siamo capaci di fare, in una prospettiva più ampia, equivale a farsi carico del fatto che il mondo che creiamo insieme agli altri è il solo mondo che abbiamo a disposizione. E che di fatto questo mondo – sia che lo si voglia affermare, sia che lo si voglia negare – si costituisce a partire da quelle disposizioni corporee che sono le emozioni su cui fondiamo la possibilità o meno del nostro stare insieme.
Esplicitare che è la corporeità ciò su cui noi fondiamo il nostro stare insieme, la nostra socialità, significa riconoscere che il nostro modo di vita è la convivenza, è la condivisione; che è da come viviamo insieme – dal cibo condiviso alle parole, al linguaggio del comunicare – che conserviamo o cambiamo il mondo che abitiamo. Che lo si sappia o meno, lo facciamo in ogni caso.
Ma il saperlo non lascia le cose come prima. Imparare a osservarsi come un individuo in mezzo ad altri individui, significa riconoscere che la nostra unicità da una parte è il risultato di una storia, di un intreccio di legami, emotivi e affettivi, cognitivi e materiali, con gli altri; dall’altra che possiamo fare la differenza nell’imparare a riflettere a partire da questa prospettiva più ampia della nostra esistenza.
E se il mondo, così com’è, appunto, non ci sta bene, fare la differenza vuol dire cominciare a porsi la domanda: qual è il mondo che vogliamo?
O anche: Che cosa ciascuno si aspetta da sé stesso e dagli altri? Quali sono le aspettative, la base emozionale, che soddisfa o meno l’immagine di sé, un senso del vivere, che si è costruito, sedimentato nel tempo, e, soprattutto, nella sua rispondenza o meno a standard culturali e sociali?
È quello che cerchiamo di fare alle cene di C O N D I R S I. Dialogare mangiando è una forma di socialità, un «fare società» che esplicita la base corporea della condivisione, del nostro stare insieme. Abbiamo bisogno di fare qualcosa insieme, e abbiamo bisogno di dirci anche cosa stiamo facendo; abbiamo bisogno di dirlo con il corpo e con la parola, non solo con l’uno e non solo con l’altro.
Nel reciproco dono del cibo riscopriamo anche il potere delle parole, il potere di scoprire l’insufficienza di un significato, ma anche di ricercarne insieme uno nuovo. Se manca la parola per descrivere l’esperienza ricercata, un’emozione, una situazione, un evento, perché ancora non esiste nel linguaggio, il rischio è di ricadere in qualche cosa che trattiene dalla possibilità di avere un’esperienza nuova.
È necessario, invece, non dare per scontato in anticipo di cosa è capace un corpo, e ancor meno cosa è capace di sentire dentro di sé quando è in un rapporto con un altro che sta lì davanti. È necessario imparare ad ascoltarsi, a divenire trasparenti a se stessi.
È quello che il lavoro artistico (da cercare nel Web) di Maya Quattropani ci invita a osservare. Sono “giochi” di scambio corporeo, basati sull’abolizione del linguaggio verbale. Una semplice regola del gioco: non parlare ma trovare una reazione fisica o un fluido corporeo, come per una sorta di riduzione al grado zero dell’espressione del corpo, dove le coppie del gioco finiscono per comunicare con la saliva, il rutto, uno sbadiglio o la tosse, tutti moti del corpo. Nell’apprendere dall’esperienza del proprio sentire corporeo, da ciò che muove il corpo come suo moto vitale, e ne rinnova l’espressione, è la coscienza stessa a cambiare, a farsi coscienza corporeizzata o incorporata (embodied).
(4, continua)
5. L’incontro con l’altro e il bisogno di dirsi
Le parole per dire le emozioni, così gravide di conseguenze per la nostra vita, da dove provengono?
Certo le parole che definiscono le emozioni, semplici o complesse che siano, come piacere o dolore, sorpresa o rabbia, amore o odio, sono una ri-presentazione in forma simbolica di disposizioni corporee che ci inducono all’azione, a un modo d’essere e di stare al mondo. Sono parole che hanno una storia culturale, individuale e collettiva, una storia che modella, attraverso l’educazione, la percezione che ne abbiamo e, soprattutto, ne legittima l’espressione.
Che cosa quelle parole vogliano dire realmente è ancora sempre il dilemma di Emma in Madame Bovary: le parole, come «felicità, passione, ebbrezza, che le erano sembrate così belle nei libri», stanno forse nella testa, o magari da qualche altra parte nel corpo, o in qualche teoria da mandare a memoria, così forti da farci sospirare, da sperare di sentirle agitarsi dentro di noi?
C’è come una tirannia del nome nel dire l’emozione. Che, se pure non sia la cosa stessa ma solo la sua rappresentazione, ci impedisce di ritrovare quel flusso dell’esperienza senza che non sia già catturato da un nome che ne ritaglia, e più spesso ne legittima, le possibilità effettive? Il rischio è di vedere e vivere solo quello che il nome definisce, che, in senso proprio, ne limita la comprensione. Il suo significato, quasi fosse dotato di sostanza propria, più che rinviare alla spontaneità del vivere, rimanda all’educazione, alla dimensione culturale che ne modella l’effettiva espressione.
Quanto sono variabili, ad esempio, le emozioni che governano le pratiche del corpo, o parti di esso, a seconda del processo educativo che governa la nostra crescita in base ai valori culturali del nostro contesto storico e sociale di appartenenza? Per quel che riguarda l’Occidente, basta ricordare la millenaria svalutazione del piacere del corpo nella tradizione letteraria della sua cultura. La dilagante pornografia di massa, non ne rappresenta certo un superamento reale.
Insomma, alla fine, è facile immaginare che le emozioni stiano nella nostra testa, o in qualche parte del corpo, quando non nella grammatica dei libri, di poesia o di narrativa. Sono quella serie di stati affettivi, sentimenti, desideri e aspettative che stanno sotto pelle, nel senso letterale del temine, cioè che ritroviamo nel corpo come vissuti corporei di eccitazione o di inibizione, e anche di sofferenza, di patimenti del corpo. Ma non è da lì che le emozioni provengono. Come per il linguaggio, le emozioni appartengono allo spazio di esistenza effettiva nel quale il nostro corpo si muove, in un continuo e ricorrente intreccio di relazioni, più o meno consensuale, con il corpo degli altri. E non per queste sono più vere o più false. Sono quello che sono. E sono così da quando abbiamo cominciato ad assaporare le carezze o, se si è stati sfortunati, ad assaggiare le sculacciate di un genitore – esperienze di contatto per le quali l’impiego di metafore alimentari non è affatto casuale. Le emozioni, associate a quelle esperienze, sono il substrato incorporato, per così dire, archeologico di quelle interazioni che, nel tempo, ci costituiscono in ciò che siamo.
Il problema delle emozioni è sapere se davvero siano là dove esse prendono vita. Perché la coscienza che ne abbiamo, come Diego Iracà ci invita a osservare, non sempre coincide con ciò che sentiamo e proviamo nel corpo o con ciò che facciamo e mostriamo con il corpo o, ancora, con ciò che enunciamo e dichiariamo nel dare voce al corpo. Il rischio è rimanere come dislocati altrove, estranei a sé stessi. Imparare qualcosa dall’esperienza del proprio sentire corporeo, sviluppare cioè una coscienza embodied, una coscienza incorporata o corporeizzata, significa riconoscere anzitutto che non sempre le dimensioni espressive del vivere sono tra loro allineate, coincidenti; e che quindi la ricerca di una qualsiasi risonanza, un qualsiasi rapporto intimo, entro cui dare e avere un riconoscimento di sé, rischia davvero ogni volta di esporsi a un senso di fallimento.
Significa riconoscere poi che ogni emozione è sì un modo riflessivo di espressione del corpo, ma che non sta “dentro” al corpo come un’entità a sé stante, sta invece “fuori”, nello spazio di esistenza di rapporti intercorporei, nell’interdipendenza di un corpo dal corpo degli altri; e che ciò che in gioco è più spesso la congruenza o meno, la consensualità o la conflittualità con cui si costruisce questo spazio di condivisione.
Significa riconoscere infine che questo stesso spazio di socialità è anche lo spazio effettivo della nostra cura, del prendersi cura di sé.
Ma perché facciamo fatica a riconoscere questa disposizione alla convivenza sensuale della nostra vita?
A questo proposito mi viene in mente ora un passo delle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. È un po’ lungo. È una riflessione magistrale sul tema del valore emozionale della conoscenza di sé e dell’altro, appunto nel contatto:
A volte, ho sognato di elaborare un sistema di conoscenza umana basato sull’EROTICA: una teoria del contatto, nella quale il mistero e la dignità altrui consisterebbero appunto nell’offrire al nostro IO questo punto di riferimento d’un mondo diverso. In questa filosofia, la voluttà rappresenterebbe una forma più completa, ma anche più caratterizzata dei contatti con l’ALTRO, una tecnica in più messa al servizio della conoscenza del non IO. Anche nei rapporti più alieni dai sensi, l’emozione sorge o si attua proprio nel contatto: la mano ripugnante di quella vecchia che mi sottopone una supplica, la fronte madida di mio padre nei suoi ultimi istanti, la piaga detersa di un ferito, persino i rapporti più intellettuali o più anodini si istituiscono attraverso questo sistema di segnali del corpo: il lampo d’intesa che illumina lo sguardo del tribune al quale si spieghi una manovra prima della battaglia, il saluto impersonale d’un subalterno che al nostro passaggio s’immobilizza in un atteggiamento di obbedienza, lo sguardo amichevole d’uno schiavo che ringrazio per avermi portato un vassoio, l’espressione da intenditore d’un vecchio amico davanti al dono d’un cammeo greco. Con la maggior parte degli esseri umani, i più lievi, i più superficiali di questi contatti bastano, o persino superano l’attesa; ma se essi si ripetono, si moltiplicano attorno a un unico essere sino ad avvolgerlo interamente; se ogni particella d’un corpo umano si impregna per noi di tanti significati conturbanti quante sono le fattezze del suo volto; se un essere solo, anziché ispirarci tutt’al più irritazione, piacere o noia, ci insegue come una musica e ci tormenta come un problema, se trascorre dagli estremi confini al centro del nostro universo, e infine ci diviene più indispensabile che noi stessi, ecco verificarsi il prodigio sorprendente, nel quale ravviso ben più uno sconfinamento dello spirito nella carne che un mero divertimento di quest’ultima.
Opinioni come queste sull’amore possono indurre a una carriera di seduttore. Se non l’ho seguita, senza dubbio dipende dal fatto che mi son dedicato a cose diverse, se non migliori. Una carriera del genere, in mancanza d’estro, richiede una serie di attenzioni, persino di stratagemmi, per i quali non mi sentivo portato. Tendere insidie sempre eguali, percorrere la solita strada, che si limita a perpetui approcci, e alla quale la conquista segna il traguardo, son cose che mi hanno tediato. La tecnica del vero seduttore esige, nel passaggio da un soggetto a un altro, una disinvoltura, un’indifferenza che io non provo e che, comunque perdevo prima di abbandonarle intenzionalmente: non ho mai compreso come si possa essere sazio di un essere umano. La molteplicità delle conquiste contrasta con il desiderio di enumerare esattamente le ricchezze che ogni nuovo amore ci reca, di osservarlo mentre si trasforma; fors’anche, mentre invecchia.
(da Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano)