L’altra sera a tavola è andato in scena un conflitto. O, per lo meno, una tensione nei confronti del potere di rappresentazione della parola, una rappresentazione minimale, dell’esistenza umana stessa, dell’esperienza, e soprattutto là dove l’esperienza è quella relazionale, della nostra vita con gli altri.
Quel potere è stato messo in dubbio. Come nell’arte visiva o teatrale, la rappresentazione è sempre rappresentazione di qualcosa, non è però la cosa stessa. Eppure la parola (ma ciò vale anche per un gesto, un’azione o un’immagine) si presenta come quella cosa (magari anche immaginaria). E allora c’è sempre la possibilità che si instauri una certa confusione tra ciò che la parola rappresenta e la cosa rappresentata. Si crea così una situazione per cui questo rapporto deve essere reso più trasparente. Per esempio, possiamo accorgerci, come risultato di un desiderio inappagato (un fumatore) o sublimato (un ex-fumatore), che l’immagine della pipa non è la pipa, né, d’altra parte, il fumo che eventualmente potrebbe sprigionarsi dal fornello potrebbe mai essere l’effetto di un processo di combustione.
E allora è bene insinuare qualche dubbio critico. C’è chi, come Massimo, della parola diffida proprio, ne vorrebbe una riduzione, fin a quasi a cancellarla, per andare alla pratica, all’esperienza diretta, e coglierne soprattutto l’espressione emozionale, in una ricerca trasformativa, attraverso il corpo, dell’esperienza di sé.
Ma la cosa non sembra andare così da sola. Proviamo a mettere però un po’ d’ordine.
Abbiamo chiamato in causa le emozioni, le emozioni dell’incontro, nella relazione con gli altri che abitano la nostra vita. E la domanda di Diego Iracà è stata: in che rapporto sta la parola, che nomina la relazione, o l’incontro, e l’emozione che la relazione, o l’incontro, suscita? Sono le emozioni che qualificano il nome che diamo a una relazione o è il nome che diamo a una relazione che provoca le emozioni?
(1, continua)