La rabbia è in genere considerata un’emozione negativa, imputabile all’individuo, a una sua riprovevole perdita di autocontrollo. Esiste però anche una rabbia pubblica, quella della protesta collettiva – è la rabbia degli sfruttati, degli invisibili, degli emarginati –, quando cioè la vita offesa rivendica pubblicamente la sua dignità, e ne afferma con forza il suo valore. In questo senso non solo la rabbia può essere politica, ma può dare espressione a una politica della rabbia come parte di una dinamica non distruttiva dell’esistente. La rabbia può allora affermarsi come energia creativa, come forza propulsiva capace non solo di resistere a uno stato di cose ingiusto, ma a farsi carico di promuovere una cura per il mondo in cui viviamo.
La politica della rabbia non si limita ad ammettere la possibilità che esistano circostanze in cui è legittimo arrabbiarsi, ma ambisce ad analizzare la rabbia come strumento di lotta collettivo e individuale indagandone la portata costruttiva come motore di cambiamento.
Insieme a Franco Palazzi*, proveremo a scoprire come una balistica filosofica possa significare comprendere la rabbia in profondità e contribuire a legittimarla come strumento politico di espressione e di sovversione.
* Franco Palazzi, è dottorando in filosofia all’Università di Essex e autore di La politica della rabbia. Per una balistica filosofica (nottetempo, 2021). Ha scritto per numerose riviste italiane e straniere, tra cui Doppiozero, Effimera, Il Tascabile, Jacobin Italia.
1. Quale potenzialità politica per l’esperienza sociale della rabbia?
Qual è il ruolo dell’emotività, delle passioni umane, in politica? E, in particolare, della rabbia?
È possibile “rivendicare” un’utilità, un uso costruttivo, dell’esperienza sociale della rabbia in una prospettiva pienamente democratica, ugualitaria della società?
Un uso radicale, egualitario della rabbia risiede, per Franco Palazzi, nella possibilità di un dialogo tra una buona filosofia politica e una buona prassi politica, nel bisogno di tenere insieme una teoria e una prassi della rabbia come sentimento politico, quale è quello che, attraverso i movimenti sociali, si esprime in un’ottica di radicale cambiamento della società – di quella società la cui oppressione e ingiustizia sono alla base appunto dell’esperienza collettiva della rabbia.
Quali informazioni sulla società veicola il sentimento della rabbia?
Il valore informativo della rabbia richiede la creazione di un «ecosistema», di un contesto sociale in cui la manifestazione della rabbia, anche nella sua espressione violenta, ci aiuta a pervenire ad una interpretazione critica della realtà sociale e, insieme, ad una sua comprensione come legittimo esercizio di un potere trasformativo di quella stessa realtà.
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2. Sfogare la rabbia: quando dire “adesso basta” è fare politica?
All’interno di movimenti sociali di protesta, di rivendicazione, insorge a volte, in forma esplosiva, una rabbia diffusa, un sentimento generale di malessere, come espressione di una radicale messa in discussione dell’ordine esistente della società. Nella piazza si riversa un principio di sovversione inscritto nella forma della vita stessa: un bisogno di liberazione dal sistema esistente, e dal suo regime di verità, l’abolizione di rapporti gerarchici, dell’emarginazione e dell’esclusione, l’abrogazione di privilegi, di regole e tabù.
Questa energia sovversiva, la cui valenza liberatrice e rigeneratrice, in altre epoche della storia europea, nell’Antichità e nel Medioevo, era riconosciuta e incanalata nella ritualità sacrale del Carnevale (Michail Bachtin), oggi è derubrica a semplice problema di ordine pubblico, poliziesco. Non c’è alternativa all’ordine esistente.
Ma allora come liberare l’energia di cui la rabbia è espressione? E non in una chiave di lettura conservativa o reazionaria che, quando non la riduce a patologia criminale, la classifica, secondo la retorica del «contagio sociale» della massa, della folla, come risposta irrazionale soltanto distruttiva del disagio sociale. C’è bisogno di un’altra risorsa interpretativa della rabbia come passione sociale.
Per Franco Palazzi, alla rabbia, nel suo dire “adesso basta” all’ordine esistente, occorre dare una «risposta appassionata»; la dinamica della rabbia deve poter diventare una «risorsa immaginativa» per una politica che voglia non ignorare l’esistenza del conflitto sociale.
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3. Rabbia sociale e violenza, tra la piazza e i social media
Viviamo, per Franco Palazzi, in un tempo di interregno, quello di una congiuntura storica in cui «il vecchio ordine è morto e il nuovo non è ancora nato» (A. Gramsci), dove, in assenza di un orizzonte definibile, è difficile orientare la rabbia sociale in una direzione egualitaria trasformativa della società.
Che lettura fare allora del momento attuale? In un tempo in cui il conflitto sociale, più che represso, è reso invisibile, di quale dissenso, di quale “rabbia politica” c’è bisogno?
La piazza, luogo tradizionale della protesta sociale, e i social media, spazio di una socialità inedita, come si intrecciano con l’attivismo politico? E la violenza, l’intensità della protesta, amplificata dai i nuovi media, che si riversa nella piazza e dalla piazza ritorna a organizzarsi sui social media, è davvero sempre espressione militante, radicale della rabbia sociale?
Ma cos’è oggi «radicale» e «militante» per una politica della rabbia?
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4. Teoria politica e pratica di lotta dei movimenti sociali
C’è una complessità della vita sociale la cui comprensione è una sfida in atto per la teoria politica. Una certa pratica di lotta – quella che si richiama all’approccio della intersezionalità – è però oggi all’altezza di questa sfida. Al suo interno si manifesta una cosa interessante: la capacità adattativadella risposta sociale al cambiamento, dalla cui esperienza la teoria politica può continuare ad apprendere.
La capacità di tenere insieme aspetti molteplici della vita sociale (la tematica socio-culturale o simbolica, come quelle identitarie, e quella più tradizionale socio-economica) è un approccio emergente dell’attivismo politico.
La sua incidenza nella “vita oppressa” è tale da far evolvere nel tempo la società stessa in una società più egualitaria e democratica?
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5. Vita da cane, una cura cinica per la filosofia politica
Al “non c’è alternativa” – slogan politico dell’ideologia neoliberista che promuove il sistema capitalista, con i suoi dispositivi di produzione di disuguaglianza sociale e di ingiustizia economica, a unico sistema di governo della vita sociale – quale riflessione critica è possibile far valere?
Per Franco Palazzi, questa possibilità è data da una rivalutazione attuale dell’antica filosofia cinica. Il potenziale politico del filosofo cinico, in quanto “figlio di un cane”, sta nella sua scelta di vita, quella di una critica “dal basso” radicale, senza alcuna protezione, del sistema di dominio. Quella del filosofo cinico è una “vita che abbia” in grado di esprimere quella particolare malattia, quel virus della rabbia, che è una disposizione critica al sopruso del potere, una manifestazione diretta della verità.
Come può quindi la pratica di una “vita da cane” essere la “cura” per una filosofia politica in grado di elaborare un’alternativa radicale all’attuale arte di governo della società, al governo di sé e degli altri? E tanto più oggi in un tempo di “messa in crisi” – ad opera di un minuscolo organismo virale – della visione ostinata di una crescita lineare del nostro stare al mondo?
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6. Del legame sociale: per una politica del sentire… in rete
Che comprensione ci è data di “di ciò che accade” oggi? Quale voce si leva nello spazio pubblico che non sia solo un’apologia dell’attualità o il suo rovescio? Alla sensibilità offesa, quella di molte vite deluse, relegate a una soggettività solo individuale, la cui rabbia è spesso sintomo di una perdita di senso, di una mancata comprensione del presente, che risposta dare?
Non è un caso se, nel corso della cena, la parola “libertà” è rimasta fuori dalla tavola. C’è bisogno di un percorso collettivo di ricerca, e non tanto di libertà, quanto invece di una via di uscita. Di una via di uscita in grado di sottrarci alla frantumazione solitaria, individualistica delle nostre vite. Si tratta di tornare a parlare di «legame sociale», di come gli individui “si sentono”, di quella dimensione emotiva che è costitutivamente politica, perché interessa il modo in cui viviamo una comune condizione di esistenza.
C’è bisogno di una politica delle emozioni progressista, capace di fare rete. E la cosa è di una certa urgenza. C’è una catastrofe climatica annunciata nel nostro orizzonte temporale. Ma forse là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva.
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