All’interno di movimenti sociali di protesta, di rivendicazione, insorge a volte, in forma esplosiva, una rabbia diffusa, un sentimento generale di malessere, come espressione di una radicale messa in discussione dell’ordine esistente della società. Nella piazza si riversa un principio di sovversione inscritto nella forma della vita stessa: un bisogno di liberazione dal sistema esistente, e dal suo regime di verità, l’abolizione di rapporti gerarchici, dell’emarginazione e dell’esclusione, l’abrogazione di privilegi, di regole e tabù.
Questa energia sovversiva, la cui valenza liberatrice e rigeneratrice, in altre epoche della storia europea, nell’Antichità e nel Medioevo, era riconosciuta e incanalata nella ritualità sacrale del Carnevale (Michail Bachtin), oggi è derubrica a semplice problema di ordine pubblico, poliziesco. Non c’è alternativa all’ordine esistente.
Ma allora come liberare l’energia di cui la rabbia è espressione? E non in una chiave di lettura conservativa o reazionaria che, quando non la riduce a patologia criminale, la classifica, secondo la retorica del «contagio sociale» della massa, della folla, come risposta irrazionale soltanto distruttiva del disagio sociale. C’è bisogno di un’altra risorsa interpretativa della rabbia come passione sociale.
Per Franco Palazzi, alla rabbia, nel suo dire “adesso basta” all’ordine esistente, occorre dare una «risposta appassionata»; la dinamica della rabbia deve poter diventare una «risorsa immaginativa» per una politica che voglia non ignorare l’esistenza del conflitto sociale.
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