Tradurre è un’attività inevitabile per l’uomo: lo è perché esistono di fatto tante lingue e tante culture. La nostra tradizione ci ha insegnato che la molteplicità delle lingue è dovuta a una specie di “condanna”, quella che Francesco Bacone chiamava “la seconda caduta”, raccontata nel mito della torre di Babele. Da qui il tentativo, che attraversa tutta la storia umana, fino ai nostri giorni, di ritrovare o ricreare una lingua unica o perfetta.
Ma è possibile che ci sia una lingua unica? Quali sono i suoi pericoli? Che cosa questo comporterebbe? Per riflettere su tutto questo, dobbiamo intendere forse diversamente quelle che sono le difficoltà della traduzione.
Ogni traduttore aspira alla traduzione perfetta, ma chi conosce molto bene due lingue sa che non è sempre così. Quando traduciamo, ci scontriamo infatti spesso con delle intraducibilità: che cosa significa questo? Riflettere su queste discrepanze, su questa mancanza di coincidenza, su queste incommensurabilità, ci può insegnare tante cose sui rapporti tra le lingue, le persone, le culture, e persino su come è fatto il nostro mondo.
Insieme a Gaetano Chiurazzi potremo comprendere come il “compito del traduttore”, per citare Walter Benjamin, è più importante di quel che si pensa…
1. Il mito della torre di babele: la pluralità delle lingue
La pluralità delle lingue è la “condanna” cui ci consegna il mito della Torre di Babele?
È la condanna all’impossibilità di costruire un linguaggio universale. Che è poi ancora l’aspirazione della scienza moderna, di origine galileiana, per la quale la matematica, la logica formale, è la lingua universale in cui si manifesta il «libro della natura».
In che lingua si esprime la verità? L’accesso alla verità è un problema, fin dall’epoca di Bacone, teologico e, insieme, epistemologico, di conoscenza della realtà.
Su che base – linguistica – è allora possibile costruire l’universalità, la comunità degli uomini? È la riduzione all’uniformità di una lingua unica o è l’accettazione della pluralità delle lingue, a garantire la convivenza umana? Un problema, per Gaetano Chiurazzi, etico. Cosa si perde e cosa si guadagna nella rinuncia al “sogno” (regressivo?) di una lingua adamica?
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2. La traduzione: interpretazione e diversità storico-culturale
L’esperienza del traduttore cosa ci insegna? Che è, in definitiva l’«intraducibilità» – la non perfetta coincidenza dello spazio semantico di una parola da una lingua all’altra, da un’epoca all’altra o da un essere umano a un altro – a segnalarci che qualcosa, l’esistenza di una diversità, è da salvaguardare. Che è la “differenza” a garantire il valore linguistico della comunicazione nell’incontro con l’altro, l’incontro tra una molteplicità dimondi e di storie.
L’attività di traduzione è, un’opera di ospitalità, di accoglienza dell’estraneo. È un’attività di riconoscimento di una «distanza», di un’alterità; è interpretazione, un lavoro di apertura del proprio mondo a una cultura altra e attraverso l’altra cultura un accrescimento della propria.
Solo così è possibile evitare la conformità mono-logica, e sempre solo dispotica, di un mondo, di una sola antropologia.
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3. Il doppio sguardo del traduttore: un problema etico ed estetico
Tradurre non è, per Gaetano Chiurazzi, una questione solo linguistica. È un incontro di contesti, di mondi diversi, e di storie. E, in alcune situazioni, può avere un’incidenza diretta, pragmatica – etica, quindi – sulla vita di altri.
In generale, una parola, che nella lingua di arrivo presenta ambiguità rispetto alla lingua di partenza – è cioè traducibile in più significati – obbliga il traduttore a interrogarsi, a decidere cos’è in gioco nell’esperienza dell’altro.
In questo “doppio sguardo” del traduttore, dall’interno di una lingua e dall’esterno di un’altra, la sua interpretazione si rivela un esercizio di meravigliosa bellezza, nel “dare voce” all’esperienza di un altro e nell’espandere in profondità la propria.
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4. La confusione delle lingue: identità, differenze e conflitto
«La traduzione è un pericolo» per una cultura identitaria, totalitaria. E, per Gaetano Chiurazzi, tradurre mette in discussione l’identità della propria cultura, perché è una attività dialogica, di “messa in comunicazione” con altre culture.
Il progetto di una lingua autarchica – la “neolingua” orwelliana – è la sua pretesa di verità, di una totale identificazione di pensiero, cose e parole. La traduzione testimonia l’impossibilità di tale progetto. L’identità culturale è un concetto relazionale, si definisce attraverso la sua differenza, e anche il conflitto. Ma come si supera il conflitto, la confusione babelica, che dalle differenze culturali si genera?
Se la lingua è un modo per definire l’identità di una cultura, la traduzione, che è un entrare nella lingua di altri, è il modo migliore per andare “oltre”, per espandere la propria identità.
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5. Grammatica della lingua, realtà e cambiamento sociale
Quale verità si esprime nella lingua? E nella grammatica di una lingua? Per Gaetano Chiurazzi, occorre disfarsi della teoria secondo cui la grammatica di una lingua, e il significato dei simboli linguistici (suoni o gruppi di suoni che «stanno per» esperienze del mondo), dipenda dalla sua capacità di riflettere o corrispondere pienamente allo stato di cose della realtà.
Eppure, non c’è niente di più basilare, per l’acquisizione e la comprensibilità di una lingua, che l’attività di categorizzare, di assegnare un’appartenenza (classe), in base a qualche proprietà, a qualsiasi affermazioni che facciamo sulla realtà del mondo. Affermazioni, che sono relative al nostro stesso pensare, percepire o agire, o al nostro parlare. La categorizzazione non è una questione da prendere alla leggera.
Infatti, ogni volta, ad esempio, che riflettiamo su un genere di cose, qualsiasi genere di cose, facciamo questa cosa – utilizziamo una categoria. A tavola, la questione del genere grammaticale in relazione alla questione della non coincidenza tra sesso biologico (il sesso attribuito alla nascita), identità di genere (“come mi sento”), espressione di genere (“come mi presento”) e orientamento sessuale (“chi mi piace”) è diventato oggetto di discussione. Di accesa discussione. Perché oggi si è diffusa in vari contesti, anche istituzionali, l’introduzione della schwa o di altri simboli grafici per denunciare «un limite espressivo della lingua italiana, ossia il fatto che non sia possibile non esprimere il genere di una persona o di un gruppo di persone» (Vera Gheno).
Cosa ci racconta, oggi, della società una tale sperimentazione nella lingua? Che relazione c’è tra i comportamenti linguistici da un lato e la società, nella sua struttura di ruoli e di status, di funzioni e di istituzioni, dall’altro? È infatti banale osservare che la convenzione grammaticale del maschile sovraesteso è tutt’altro che “naturale”, e che piuttosto dipende da un dominio di esperienza del maschile prevalente nella storia della nostra società.
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6. La riflessività della traduzione: una verità su di “noi”
È una domanda legittima chiedersi cosa ha detto veramente Platone o un antico autore? È possibile «rivivificare l’assoluto significato originario» delle parole di un testo antico? Ad esempio, del testo «μὴ εἰσενέγκῃς (eisenénkēis, lat.: inducas) ἡμᾶς εἰς πειρασμόν (peirasmon, lat.: temptationem)» nella preghiera del Padre nostro, che un filologo classicista potrebbe tradurre in italiano con: non ci mettere alla prova?
Per Gaetano Chiurazzi, la traduzione di una parola è la «sedimentazione» del suo significato, è la sua storia, e non è possibile ignorarla. Anzi, è la dimostrazione che il significato di una parola dipende dal contesto culturale e storico entro cui si evolve.
Allora, un’operazione di traduzione ci mette di fronte alla «svolta della riflessività»: nel processo di interpretazione delle parole di un “altro” autore – antico o attuale che sia – cosa stiamo dicendo di noi, del contesto culturale da cui la nostra esperienza del mondo assume significato? Si tratta, allora, di portare allo scoperto le premesse del nostro parlare, le premesse da cui facciamo affermazioni sulla realtà.
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7. I social media digitali: tra aggressività del presente e invenzione del futuro
Dall’inizio. Forse non si crede più che il suono di una parola abbia qualche relazione intrinseca – “data”, “naturale” – con la cosa che per convenzione culturale «significa», tanto da immaginare che nell’esprimere una formula verbale sia possibile esercitare un controllo sulla cosa che la formula richiama alla mente. Una credenza probabilmente ingenua.
Forse, oggi, si ritiene che una lingua sia il prodotto arbitrario di un processo “storico-culturale”, qualcosa che si può effettivamente «costruire» come un artefatto, secondo una visione della lingua come di un «codice» che si sviluppa in base a istruzioni programmabili. La difficoltà di «tradurre» da una lingua all’altra ci dice però che la cosa non sta proprio così.
In un caso o in un altro, gli elementi del linguaggio (grammatiche, vocabolari, sintassi e usi retorici) servono da base collettiva per la comunicazione. Questi «sono contesti convenzionalizzati per esprimere il significato; la gente deve venire a patti con essi, entro certi limiti di tolleranza, se vuole capirsi» (Roy Wagner)
Di qualcosa di cui parlare c’è comunque bisogno. L’uso significativo della lingua non può esistere al di fuori di situazioni esperienziali, emotive e creative della vita umana. L’aggressività verbale che, in modo convenzionale, dilaga al presente nello spazio comunicativo dei social media è sintomo di quale esperienza della realtà sociale? E si prospetta come invenzione di quale futuro?
Per finire. La questione della distinzione tra «natura» e «cultura» – necessaria per Gaetano Chiurazzi – in fondo è stato il filo conduttore nascosto del discorso sulla traduzione. E sarà il tema di un prossimo appuntamento.
(7, fine)