Quale verità si esprime nella lingua? E nella grammatica di una lingua? Per Gaetano Chiurazzi, occorre disfarsi della teoria secondo cui la grammatica di una lingua, e il significato dei simboli linguistici (suoni o gruppi di suoni che «stanno per» esperienze del mondo), dipenda dalla sua capacità di riflettere o corrispondere pienamente allo stato di cose della realtà.
Eppure, non c’è niente di più basilare, per l’acquisizione e la comprensibilità di una lingua, che l’attività di categorizzare, di assegnare un’appartenenza (classe), in base a qualche proprietà, a qualsiasi affermazioni che facciamo sulla realtà del mondo. Affermazioni, che sono relative al nostro stesso pensare, percepire o agire, o al nostro parlare. La categorizzazione non è una questione da prendere alla leggera.
Infatti, ogni volta, ad esempio, che riflettiamo su un genere di cose, qualsiasi genere di cose, facciamo questa cosa – utilizziamo una categoria. A tavola, la questione del genere grammaticale in relazione alla questione della non coincidenza tra sesso biologico (il sesso attribuito alla nascita), identità di genere (“come mi sento”), espressione di genere (“come mi presento”) e orientamento sessuale (“chi mi piace”) è diventato oggetto di discussione. Di accesa discussione. Perché oggi si è diffusa in vari contesti, anche istituzionali, l’introduzione della schwa o di altri simboli grafici per denunciare «un limite espressivo della lingua italiana, ossia il fatto che non sia possibile non esprimere il genere di una persona o di un gruppo di persone» (Vera Gheno).
Cosa ci racconta, oggi, della società una tale sperimentazione nella lingua? Che relazione c’è tra i comportamenti linguistici da un lato e la società, nella sua struttura di ruoli e di status, di funzioni e di istituzioni, dall’altro? È infatti banale osservare che la convenzione grammaticale del maschile sovraesteso è tutt’altro che “naturale”, e che piuttosto dipende da un dominio di esperienza del maschile prevalente nella storia della nostra società.
(5, continua)