Dall’inizio. Forse non si crede più che il suono di una parola abbia qualche relazione intrinseca – “data”, “naturale” – con la cosa che per convenzione culturale «significa», tanto da immaginare che nell’esprimere una formula verbale sia possibile esercitare un controllo sulla cosa che la formula richiama alla mente. Una credenza probabilmente ingenua.
Forse, oggi, si ritiene che una lingua sia il prodotto arbitrario di un processo “storico-culturale”, qualcosa che si può effettivamente «costruire» come un artefatto, secondo una visione della lingua come di un «codice» che si sviluppa in base a istruzioni programmabili. La difficoltà di «tradurre» da una lingua all’altra ci dice però che la cosa non sta proprio così.
In un caso o in un altro, gli elementi del linguaggio (grammatiche, vocabolari, sintassi e usi retorici) servono da base collettiva per la comunicazione. Questi «sono contesti convenzionalizzati per esprimere il significato; la gente deve venire a patti con essi, entro certi limiti di tolleranza, se vuole capirsi» (Roy Wagner)
Di qualcosa di cui parlare c’è comunque bisogno. L’uso significativo della lingua non può esistere al di fuori di situazioni esperienziali, emotive e creative della vita umana. L’aggressività verbale che, in modo convenzionale, dilaga al presente nello spazio comunicativo dei social media è sintomo di quale esperienza della realtà sociale? E si prospetta come invenzione di quale futuro?
Per finire. La questione della distinzione tra «natura» e «cultura» – necessaria per Gaetano Chiurazzi – in fondo è stato il filo conduttore nascosto del discorso sulla traduzione. E sarà il tema di un prossimo appuntamento.
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