[Contiene una proposta di riflessione che mi sta a cuore. E scusatemi per la lunghezza]
Che cosa ci rivela su noi stessi la «cura» per l’opera d’arte e, se si vuole, per il bello?
Il fare del curatore, una ricerca espressiva, è aperto all’incertezza.
E non a caso. È indice di uno stato dell’«arte d’artista», oggi.
Un/a artista ha un’ampia possibilità di seguire, nella sua produzione simbolica, la sua personale comprensione della coerenza e l’energia espressiva di quest’ultima. Al punto, come rivendica Ilaria, di essere libero/a di perseguire una propria personale risonanza espressiva, non limitata dalla rispondenza a un canone sociale stabilito della comprensione dell’arte. Anzi, per l’artista, il fatto di potersene fregare fa parte del gioco.
E bene fa Ilaria a ricordarci che il conflittuale e l’incompleto fa parte del percorso del fare artistico. Un processo che può anche fallire.
Che l’innovazione artistica abbia poi successo anche nella fruizione pubblica è un’altra faccenda.
Per fortuna, il valore dell’arte, come dimostra il riconoscimento postumo di opere, da Vermeer van Delft a Vincent Van Gogh, è indipendente dalla sua struttura sociale, cioè dal rapporto che intercorre tra chi produce arte e chi la richiede e la paga. È a questo scarto che crede Stefano.
Tuttavia, oggi, il successo dell’artista, della sua creatività individuale, risulta fortemente canalizzato entro le pratiche dominanti dei circuiti e delle istituzioni del mercato dell’arte (residenze, gallerie, prima piccole poi grandi, musei). E ciò oggi vincola a un canone dell’arte che, in definitiva, è finalizzato agli interessi (le quotazione di mercato) dei committenti finali.
È, allora, superfluo domandarci se un’altra fruizione finale è possibile? Che non sia nella cassaforte o sopra il divano del collezionista.
In ogni caso, l’autonomia della posizione sociale dell’artista è oggi garantita: va dall’artista, che è sullo stesso piano del pubblico che apprezza l’arte, all’artista che è così potente nell’influenzare il gusto all’interno delle istituzioni dominanti da poter fare a meno del pubblico.
È superfluo domandarci se la risonanza della creatività artista è costruibile su un’altra base sociale, più condivisa, più partecipata? A sostegno stesso dell’autonomia creativa dell’artista?
Ciò che accomuna il lavoro di curatela dell’opera d’arte e l’attività artistica stessa è il fatto di essere un’attività pratica aperta. La «cura» artistica si concentra sulla natura, immaginaria e fisica, dell’oggetto artistico, sulla cosa in sé; si confronta con il materiale, con i suoi parametri di qualità, da trasformare in espressione, in una produzione simbolica.
La creatività non è forse questo: l’espandersi di un’abilità pratica – imparare a svolgere bene il proprio lavoro – che si costruisce attraverso il ritmo di apertura ai problemi e ricerca di soluzioni, una sfida tecnica, ideativa e materiale insieme? E per cui qualcosa che prima non è viene a esistere? Come, appunto, ci ricorda Daniele.
Non è anche, questo movimento un modo più adeguato di vedere l’attività dell’essere umano che è in noi? Proprio perché coinvolge emozione e ragione, al tempo stesso, nella mano e nella testa.
Ed è questo il «bello»: l’artista ci ricorda che vedere incarnati in un essere umano i criteri della qualità del fare è preferibile. Cosa che appunto dà più senso alla nostra esistenza.
(Fine, 4)
Video appartenente alla cena:
Cena Nº24
Fatto ad arte. L’arte e la «cura» del fare – Performance/Conversazione con Stefano Riba
con Stefano Riba