Sulla progettualità di C O N D I R S I
«Se l’appetito termina nel bene e nella pace e nel bello, questo non significa che termini in obiettivi diversi. Per il fatto di tendere al bene, una cosa allo stesso tempo tende al bello e alla pace […]. Così chi vuole il bene, per ciò stesso vuole il bello.» (Tommaso d’Aquino, De veritate)
È un progetto sull’arte della cura, del prendersi cura.
Anzitutto, della cura del fare, di un fare espressivo, che ci coinvolge. La preparazione del cibo ci fa ritrovare insieme a tavola. È un fare che si realizza nella «messa in relazione», in un legame sociale di reciprocità.
La reciprocità è fondamentale. È un «fare intrecciato», nell’accogliere e nel restituire, in forma di dono, una condizione necessaria della cura, dove il dono del cibo – il cui archetipo è il dono materno del nutrimento – si trasforma, come all’interno di ogni società, in una pratica rituale e, in definita, in cultura.
E poi c’è, appunto, il parlarsi, il dirsi. In forma di conversazione. Non è un caso se questi due sfere di esperienza si presentano insieme. Ciò succede perché nella reciprocità del dono del cibo e del parlare si consuma un’identica esperienza, quella della comunicazione (da ‘communicare’ la cui base è ‘communis’, ‘cum’ = insieme, + ‘munis’ da ‘munus’ = ciò che è condiviso, carica, ufficio, dono).
A suo fondamento, c’è l’interdipendenza, reale e simbolica, nella successione delle generazioni, e l’interdipendenza diffusa tra individui partecipanti. Dove il valore della reciprocità non dipende dalla cosa donata o dalla sua misura, secondo un’espressione riduttiva, formale di un’equivalenza economica; dipende invece dalla speciale qualità umana che si esprime nella cura, nell’interesse per il legame, per la modalità condivisa della fruizione di ciò che è posto, per così dire, sulla tavola. Cibo e parole.
C O N D I R S I vuole essere questo: una pratica che dimostra non solo che parlare è fare qualcosa insieme, ma anche che del nostro parlare, durante una conversazione a cena, se ne può fare qualcosa. C’è bisogno di far posto alla cura per la convivialità, a un fare della «reciprocità», che renda desiderabile l’invenzione di una nuova pratica sociale
Nell’attuale fase di passaggio – così come si sono espressi i giovani nel corso della cena – forse vale la pena dilatare l’orizzonte del nostro fare, e della nostra ricerca, fino ad includervi il valore di legame della «gratuità», di un fare che si compie nella costruzione stessa di nuovi legami sociali.
È una sfida dell’oggi.
Fino a che punto è tollerabile che la creazione di tempo sociale disponibile, di tempo che non risulta valorizzabile ai fini della produzione della ricchezza immediata – e prova ne è la crescente inutilità economica e sociale del tempo di molti, soprattutto giovani – non si risolva nella formazione del «libero sviluppo delle individualità» (Karl Marx)
Fino a che punto è tollerabile che questa ricchezza reale della società non sia impiegabile per la libera espressione creativa dello sviluppo personale di tutti?
(5, fine)
Video appartenente alla cena:
Cena Nº24
Fatto ad arte. L’arte e la «cura» del fare – Performance/Conversazione con Stefano Riba
con Stefano Riba