L’essere attori – tutti attori – è, per Antonio Attisani, un’istanza politica. Ma per quale “teatro”? Un teatro come «gioco di passioni», che affonda «le sue radici nella ricerca di sé stessi», che fa della «dinamica delle passioni» – un entrare dentro noi stessi attraverso gli altri – un criterio per interpretare il mondo.
E, al riguardo, non è possibile ignorare che, in particolari contesti sociali di dominio, la condizione dell’“oppresso” reclama un accrescimento della libertà individuale – appunto, la consapevolezza che le emozioni sono istanze profondamente sociali, sono di natura politica.
Per far fronte alla complessità del vivere, al «grottesco della vita» – lo squilibrio, la sproporzione tra il sublime e il volgare, tra il grandioso e il meschino, tra il tragico e la farsa – non basta un teatro che sia «trasmissione di idee»: «l’dea non vale niente… è merda!» Quello che conta, per Antonio Attisani, è il «movimento del pensiero» per un teatro che si fa gnosi, si fa «conoscenza per mezzo dell’esperienza», nella messa in gioco di sé come “essere attore”.
(4, continua)