«Che cosa ci impedisce di desiderare una socialità diversa da quella che non ci piace?» – è la domanda di Antonio Attisani.
La finzione teatrale che è «pensiero all’opera», “rappresentazione” di una forma di vita, offre la possibilità di partecipare a un’esperienza reale senza doverne subire le conseguenze. È un esperimento sulla verità delle passioni umane e, secondo Aristotele, è fonte stessa di godimento, anche del terribile della vita, è esperienza del piacere, di un piacere che si dà appunto come conoscenza.
Un’educazione in cui «per ognuno sia possibile farsi il proprio corpo-teatro non va d’accordo con la modernità, non va d’accordo con la fabbrica…», anzi, presuppone l’invenzione di un mondo diverso senza però prefigurare un’utopia. Al contrario. Una pratica di costruzione del corpo-teatro, come azione psico-fisica quotidiana di consapevolezza di sé, «qualcosa si produce», per contagio, una cosa piccola; ancora resta non risolto il problema di come trasformare il desiderio individuale di cambiamento in esigenza, in una pratica collettiva, politica.
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