La costruzione di una cooperazione sociale, alternativa alla modalità capitalista di appropriarsene, può emergere solo all’interno di contesti sociali in cui sia possibile decidere delle forme della vita collettiva, in contesti permeati da una cultura di democrazia profonda, radicale, in grado cioè di rifondare a tutti i livelli, e su ordini di scala diversi – anche a livello dell’istituzione statale – i processi di riproduzione sociale.
Una «rivoluzione politica» immensa che, attraverso la negoziazione di vincoli, l’apertura di spazi, la conquista di diritti (vedere l’esperienza di “Campi aperti” di Bologna), sia in grado di sottrarre la cooperazione sociale alla logica di “mercato”, di valorizzazione del capitale. E, prima o poi, non priva di conflitto, della violenza dello scontro.
Ma senza una rivoluzione sociale, il cui modello generale, per Massimo De Angelis, è dato dalla lotta indigena dell’America latina, dalla lotta di quell’«indigeno in noi» (Mariarosa Dalla Costa e Selma James) che consiste nella capacità di creare il mondo, il contesto in cui viviamo in maniera comune; senza questa dimensione del sociale, di questa «messa insieme» delle forme della condivisione, non è possibile comprendere «cosa vuol dire comune» – una scoperta che può darsi solo dal momento in cui emergono «i processi del fare in comune».
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