La scienza, e in genere la cultura, come può essere espressione del bene comune, là dove le istituzioni – della formazione, dell’istruzione o dell’attività lavorativa – in cui la si esercita perseguono interessi economici di natura privatista, e generano condizioni di esistenza sempre più parcellizzate della vita sociale?
Una cultura che celebra la performance individuale, il cambiamento personale, e non il potenziamento collettivo, il potere trasformativo delle condizioni di vita comune – il commoning, una pratica del fare in comune, e quindi anche del pensare e del volere –, a che condizione riesce a tenere insieme gli individui? O, altrimenti, cosa consente a un individuo di cavarsela in una vita istituzionale diventata più competitiva, basata su relazioni umane superficiali – superficiali, perché improntate ad alti livelli di sfiducia e di ansia da inutilità generalizzati.
Insieme a Massimo Arvat ci siamo interrogati sul valore politico di quella sensibilità che va sotto il nome di ansia da cambiamento climatico (o eco ansia), cui, soprattutto, le nuove generazioni reagiscono con l’attivismo della ribellione. È, forse lì, nella lotta, nella dimensione del poter fare insieme, che è da rintracciare quel senso del possibile, l’immaginario di un bene comune, di una compiuta democrazia, per riuscire a salvarci dalla catastrofe ambientale in corso?
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