Una adeguata definizione del concetto di classe, per comprendere le dinamiche concrete di trasformazioni materiale dei processi socio-economici, è ancora possibile? O possiamo farne a meno? Come però diviene altrimenti possibile afferrare il senso dei processi di costruzione di un soggetto collettivo, antagonista al modo di produzione capitalistico?
Per Giuseppe Dambrosio, non è più possibile. Almeno, non nei termini di una riedizione della figura storica della classe operaia. È difficile oggi ricondurre le nuove soggettività a una forma del produrre, e cioè a una modalità con cui i soggetti realizzano la loro attività lavorativa – alla sua forma capitalistica che in realtà continua a essere funzionale, e in maniere sempre più pervasiva e invasiva, alla creazione di valore (ricchezza) per pochi.
L’individualità personale è diventata il fondamento dell’aggregazione, secondo l’ideologia dell’essere imprenditore di sé stesso; l’identificazione di sé non è più funzionale, relativa cioè a come l’individuo è subordinato nel produrre la propria vita alle condizioni materiali che la rendono possibile, ma è basata su classificatori esperienziali o sociologici, a forme di appartenenza identitarie (genere, gruppo generazionale, ceto sociale).
È possibile ancora ripensare la subordinazione che consente l’istaurarsi di quel rapporto, la connessione che rende possibile la produzione della vita materiale, senza cui nessuna attività lavorativa viene messa in moto, e anzi ne viene esclusa? E tuttavia quella connessione continua a configurarsi come relazione capitalistica: là dove appunto gli elementi del processo lavorativo (lavoro e materia e mezzi di produzione) si uniscono solo attraverso la mediazione del denaro (lavoro salariato, che non significa solo operaio di fabbrica), anche la dove la mediazione si è fa fittizia, puramente monetaria, finanziaria (l’uomo indebitato a vita).
Senza la possibilità di una riconfigurazione della connessione che subordina gli individui alla produzione delle condizioni sociali della loro vita, la semplice opposizione a uno dei termini della relazione – l’anticapitalismo – non può bastare. Del suo potere se ne fa solo un mostro, un’astrazione, che lascia le singole vite nell’impotenza.
Eppure, la meccanica di appropriazione distruttiva con cui oggi opera il processo di valorizzazione del capitale, l’estrazione di valore dalle vite, umane e non umane, e dall’ambiente non lascia molto tempo per trovare una via di uscita.
(5, continua)