In un sistema sociale di potere, che si manifesta come qualcosa che sta sopra gli individui – non come espressione di una loro relazione reciproca, «ma come loro subordinazione a rapporti che sussistono indipendentemente da loro e nascono dall’urto degli individui reciprocamente indifferenti» (Karl Marx) – l’indipendenza individuale è solo un’illusione. La semplice sussistenza di quella struttura di rapporti esterni esprime la subordinazione, e la subordinazione necessaria degli individui, della massa degli individui, a quel sistema sociale.
Insomma, se ciò è vero, non è possibile uscirne da soli. È la collettività a essere chiamata in causa. Per Giuseppe Dambrosio, è possibile tuttavia compiere “atti di resistenza” a partire da sé, dalla propria soggettività – le tecnologie del sé, come forme di auto-governo – fino a forme collettive di attività, del fare in comune, e con ciò riappropriarsi del carattere conviviale (Ivan Illich), cooperativo dell’attività lavorativa.
Una società, in cui la massima realizzazione possibile consiste nel modello di vita dell’homo consumens – un individuo autoreferenziale, che aspira a consumare e a essere consumato – non può che produrre una soggettività modellata dalle esigenze imposte (e proposte) via marketing. Per realizzare questo tipo di soggetto, è sufficiente un sistema di istruzione in grado di promuovere competenze, ma solo in chiave tecnica, in un’ottica aziendalistica (crediti e debiti formativi, risorse umane, Piano dell’offerta, ecc.). Un soggetto competente, ma non in grado di andare oltre l’orizzonte di senso dell’homo oeconomicus, per il quale la felicità consiste nel perseguire, massimizzare il proprio interesse egoistico.
Per Giuseppe Dambrosio, contrastare un sistema dell’educazione così orientato è un compito per cui vale la pena spendersi.
(6, continua)