In arrivo / Cena Nº99 - Martedì 22 ottobre 2024

La costruzione del “noi”

con Filippo Barbera

La costruzione del “noi” richiede la presenza di opportunità quotidiane per sperimentarsi come persone in ruoli di cittadinanza. Ma in quali luoghi abbiamo l’occasione di sperimentare questa opportunità? Eppure, il benessere delle persone e la coesione sociale si costruiscono non solo o non tanto sulla base di valori comuni, ma grazie alla presenza di spazi pubblici condivisi – luoghi terzi, oltre a quelli tradizionali del produrre e dell’abitare. È l’organizzazione spaziale della vita quotidiana a qualificare le nostre opportunità di cittadinanza.

Quando e dove ci sentiamo parte di qualcosa di collettivo? Esistono spazi condivisi all’interno dei quali i problemi e i bisogni individuali qui e ora diventano soluzioni collettive proiettate nel futuro? La priorità per una classe dirigente all’altezza dei tempi dovrebbe oggi essere questa. Impegnarsi per ricostruire spazi, luoghi e modalità per sperimentare in modo pratico la capacità di aspirare a un futuro condiviso.

Insieme a Filippo Barbera* ci interrogheremo sulla possibilità di esercitare la cittadinanza in presenza di luoghi intermedi, una volta tipici delle fabbriche e della solidarietà di classe, oggi diffusi e radicati nei territori, dalle periferie alle aree interne, nei luoghi dello sfruttamento e in quelli dell’innovazione sociale, dalle nuove strutture associative a ciò che resta di quelle tradizionali, ma anche nei luoghi della produzione della riproduzione sociale. Fino ai luoghi attrezzati per la selezione della classe politica, la rappresentanza e l’intermediazione: partiti, centri studi, sindacati, organizzazioni. Tessendo reti e legami tra la coscienza di classe e la coscienza di luogo, tra i meccanismi di produzione del valore e le forme dell’appartenenza al “terrestre”.

*Filippo Barbera è Professore di sociologia economica e del lavoro presso il Dipartimento CPS dell’Università di Torino e fellow presso il Collegio Carlo Alberto. Si occupa di innovazione sociale, economia fondamentale e sviluppo delle aree marginalizzate. Tra le sue recenti pubblicazioni, ricordiamo: Contro i borghi (a cura di, con D. Cersosimo e A. De Rossi, Donzelli, 2022), Le piazza vuote (Laterza, 2023). È membro dell’assemblea del Forum Diseguaglianze e Diversità; scrive per Il Manifesto.

Immagine di copertina: Yorgos Sapountzis, “Soft World-Hard World”, performance-installazione, in “Common Spaces”, ISP Whitney Museum, 2014, The Kitchen, New Yor

1. Il modello di società neoliberale si è mangiato lo spazio pubblico

La tesi di Filippo Barbera è che «il modello neoliberale si è mangiato lo spazio pubblico», un modello di società dove lo Stato è finalizzato a preservare i «meccanismi di accumulazione del capitale», a scapito di ogni pressione democratica nella configurazione della vita sociale. La nostra società, tra globalizzazione e svolta digitale, è segnata da un profondo processo di recessione sociale: quel che viene meno è proprio l’importanza dello spazio fisico dell’interazione per la costruzione stessa della reciprocità – di un “noi”, appunto.

Ma se lo spazio fisico che è alla radice dell’interazione faccia a faccia mediata dalla corporeità – siamo corpi in azione nello spazio – viene meno, la sua rarefazione quali conseguenze produce nella configurazione dello spazio pubblico? E, soprattutto, quali conseguenze ha  nella costruzione di un “noi”, inteso come intenzionalità collettiva, orientata a realizzare uno stato futuro del mondo più giusto?

Nella realtà a più livelli dello spazio pubblico – dalla banalità della vita quotidiana agli spazi intermedi dell’elaborazione politica e agli spazi dei luoghi di vita – il modello neoliberale di società è un modello privo di futuro, che non ammette una discontinuità radicale con il presente. In mancanza di una “promessa di futuro”, dell’“impegno” cioè verso una progettualità comune, per «soddisfare non solo un bisogno materiale per mema anche una soluzione collettiva connessa a un’idea di giustizia sociale per noi», come è possibile “abilitare” la realizzazione di un “noi”?

Ma di un “noi” il cui senso di appartenenza, radicato nei luoghi di vita, costitutivo della nostra esistenza, non si risolva nella chiusura rispetto all’“altro”, ma in un potenziale «intreccio di radici», e cioè nella realizzazione di quello che la filosofia politica chiama «cosmopolitismo radicato o parziale», aperto a una soluzione collettiva dei problemi urgenti  della società attuale.

(1, continua)

2. Approccio agro-ecologico alla politica e il tema dell’intermediazione

Non c’è più tempo. Le sfide sociali sono di una tale drammaticità, da far sentire ancor più l’urgenza di un’azione politica che manca. In assenza di iniziativa politica e in un contesto di scarsità di risorse, Filippo Barbera propone un approccio agro-ecologico alla politica: ripristinare i ricostituenti fondamentali del “terreno di cultura” dell’agire collettivo, distrutto da decenni di politica neoliberale.

Ci sono esempi che già vanno nella direzione di un’apertura cosmopolita di aree interne locali, di rioccupazione degli spazi pubblici della vita quotidiana e ancora di re-intermediazione della politica. E anche, nella ripresa della formula dell’auto-organizzazione sociale, come possibile via di uscita, in una prospettiva di futuro diverso.

Il fenomeno dell’auto-organizzazione si trova ad affrontare, secondo Filippo Barbera, il problema della rappresentanza, dell’intermediazione politica. O, meglio, il problema di come un fermento sociale di auto-organizzazione possa essere in grado esercitare un’influenza, diretta o indiretta, sulla politica istituzionale.

Problema non è di facile soluzione. Perché appunto la sordità della politica è oggi l’esito di un processo in cui «i partiti sono diventati dei gruppi di potere dentro le maglie dello Stato», la cui riproduzione non si realizza più attraverso la tradizionale “nicchia ecologia” del consenso sociale, ma attraverso la “nicchia ecologica” dello Stato, la cui prassi è rispondere a gruppi di potere. Rispondere a chi ha più voce, di tipo simbolico o materiale, invece che a interessi sociali, a interessi collettivi.

(2, continua)

3. Il bisogno del “noi”, tra senso relazionale dell’azione pubblica e sordità della politica

Che fine a fatto il bisogno del “noi”, il bisogno di appartenenza? Al “noi” si è sostituito «un “io” che gira a vuoto». Il ripiegamento sull’“io” dimostra la tesi di Filippo Barbera: che la pervasività del modello neoliberale di società, dell’“economico” come orizzonte di senso della realizzazione individuale, ha fatto terra bruciata del senso relazionale dell’azione, della socializzazione espressiva, dello stare insieme come intenzionalità collettiva.

Il senso del “noi” sopravvive in tentativi sparsi di gestione comune (neo-comunitaria) di servizi e di beni della vita quotidiana – dall’energia al cibo, alla abitazione –, tutti tentativi di ricostruzione di quella che è «l’infrastruttura spaziale della sfera pubblica». Ma di fronte alla sordità della politica, a quale destino vanno incontro queste iniziative di riscoperta dell’azione pubblica?

Le forme attuali di interazioni dentro i partiti, ridotti a centri di interesse e di potere, «incistati dentro le maglie dello Stato», per i giovani – quando non catturati dentro la sfera virtuale dell’interazione dei social – anche, e forse soprattutto, quando impegnati nell’attività sociale non sono più accettabili. L’estraneità della politica è un problema da risolvere.

(3, continua)

4. Eterarchia, il governo dell’altro per “fare spazio” a un futuro diverso

Quali proprietà deve presentare la ricostruzione di spazi condivisi, perché sia possibile la genesi di un soggetto plurale, un “noi” basato sull’intenzionalità collettiva? Per Filippo Barbera, «la ricostruzione di spazi davvero generativi di un futuro diverso deve essere porosa rispetto alla diversità radicale». Ma solo uno spazio che dia voce al bisogno degli ultimi, dei senza voce – i silenti – può abilitare le condizioni per la genesi della domanda di un futuro più giusto.

Spazio, quindi, ibridante, basato sulla reciprocità del riconoscimento – è l’eterarchia, il governo dell’altro: il governo di un’altra misura delle cose, un’altra convenzione di qualità, un’altra metrica del valore, basata sulla reciprocità, anche e soprattutto tra posizioni dissonanti, in conflitto, per «ricostituire una comune sfera di cittadinanza». Spazio, ancora, performativo, dove la domanda di senso fondativa emerge nel corso dell’azione stessa, dove l’appartenenza è data dal fare, dal «mettersi a repentaglio», per realizzare una comune promessa di futuro (politicizzazione del futuro).

Ma in questa organizzazione spaziale di una sfera pubblica quotidiana dissonante, l’idea stessa di cittadinanza, in quanto azione che nutre la capacità di attivare una domanda collettiva per un futuro più giusto, quale spazio assegnare al desiderio individuale e all’aspirazione personale alla felicità?

Come costruire allora l’architettura di uno spazio sociale in grado di generare le condizioni dell’azione collettiva, la produzione di effetti collettivi, e lasciare un’impronta nella realtà? Per Filippo Barbera, non si tratta tanto di promuovere una speculazione su un modello ideale di società, quanto invece una capacità pragmatica di generare effetti sul funzionamento reale della democrazia (“sperimentalismo democratico”) e al tempo stesso di costruire una nuova alleanza tra saperi tecnici e politica.

(4, continua)

5. Ripartire dai margini: mobilitazione politico-sociale e saperi socio-tecnici

È venuta meno la capacità di mobilitazione nell’orientare al bene comune la gestione politica delle risorse? Se sì, allora a che condizioni è possibile riattivare «la mobilitazione trasversale, a geometria variabile, di attori politici e sociali insieme»? Per Filippo Barbera, vale la tesi di Fabrizio Barca (coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità): occorre «ripartire dai margini» (soggetti, pratiche, luoghi): riconnettere quei margini alle diffuse risorse imprenditoriali, alla ricerca tecnico-scientifica di qualità, alle buone pratiche pubbliche e alle tante forme di auto-organizzazione sociale, di movimento, di lavoro di cura che “con” quei margini lavorano.

Per costruire il consenso necessario, è necessaria ripartire da una progettualità radicale, che sa tenere insieme la propensione soggettiva a stare bene, e alla ricerca della felicità, propria di una personale progettualità di vita, all’azione collettiva trasformativa degli spazi, sempre situati, della vita sociale.

In un contesto di difficile uscita dalla dimensione individuale, più che partire da valori o ideologie condivise, per Filippo Barbera, poiché è «il corpo che fa», si tratta di inventare assemblaggi, infrastrutture, tecnologie di interazione – non basate sulla centralità del logos, della parola –  ma su “percorsi basati sul fare insieme”, un fare mobilitante la partecipazione collettiva. Quali modelli allora di governance delle differenze (individuali, etniche, generazionali) inventare per generare un uso collettivo diffuso degli spazi pubblici?

(5, continua)

6. A che condizione la collettività chiede un futuro più giusto?

La politica pubblica è trasformativa della realtà sociale – dei luoghi di vita – solo quando realizza i bisogni degli individui che la abitano. Non basta però che la politica pubblica tenda a dare nome, e voce, a un bisogno che esiste già, a generare un soggetto del discorso pubblico degno di attenzione pubblica – dotato del diritto di cittadinanza – cui destinare risorse collettive; la realtà di un bisogno esistente deve tendere a esplicitarsi in un movimento reale, portato a consapevolezza per farsi domanda politica, esercizio effettivo di cittadinanza.

La politica delle aree interne ne è un esempio. Un’area interna – uno spazio maggioritario della realtà territoriale italiana – è quell’area che sta lontano dall’offerta dei sevizi di cittadinanza (ospedali, scuole, stazioni), e in quanto tale è portatrice di un bisogno effettivo. Ma la politica delle aree interne al momento risulta inattuata, e in gran parte bloccata.

A che condizioni allora una collettività chiede un futuro più giusto? Quali siano le cose giuste per un miglior funzionamento della società è cosa che in realtà, per Filippo Barbera, si sa già; il problema è che questa domanda di futuro non trova espressione. Come allora costruire un legame tra coscienza della crisi – che investe la vita degli individui, dalla crisi ecologica all’ingiustizia nella distribuzione della ricchezza – e realtà della vita quotidiana?

Oltre a ripensare il rapporto tra politica pubblica e comunicazione, sempre più assoggettata alla logica spettacolare dei media, occorre porsi il problema di come colmare il divario gigantesco oggi esistente tra quello che si sa, la conoscenza, il sapere tecnico – una ricchezza reale – e quello che si fa, l’azione politica, che ne limita l’adozione ai fini di una società migliore, più giusta.

(6, continua)

7. Quale immaginario sociale per pensare a un futuro più giusto?

Fino a prima della pandemia mondiale, il futuro era scomparso dal discorso pubblico. Oggi si torna a parlare di futuro – è una delle parole più usate nella pubblicità – perché il futuro fa paura. Ma come mantenere la speranza verso un futuro collettivo, del “noi”, senza la possibilità di proiettare un immaginario sociale oltre l’orizzonte di senso della società capitalistica attuale?

Di quale immaginario c’è bisogno per andare oltre al “non c’è alternativa” al presente, il cui realismo non consente di guardare al futuro del mondo che come catastrofe? E il cui effetto è la caduta in un’ansia esistenziale ancora più paralizzante? Una reazione, l’inquietudine per il futuro, che in questa forma riflessiva è per Filippo Barbera indice di consapevolezza del tempo che si sta vivendo.

Come il singolo individuo può allora affrontare questo senso di paralisi? Il primato dell’individuo isolato, competitivo, che fa a meno degli altri, lo consegna all’impotenza di fronte allo strapotere dell’esistente, destituendo di senso la possibilità stessa di farsi domande, di elaborare, quindi, un’intelligenza collettiva su un futuro più giusto. Ma dove attingere a un immaginario, anche solo letterario, quando nel frattempo si è prodotto un cambio di paradigma del senso del reale: dalla fiducia in un futuro progressivo, lineare e stabile del mondo all’incertezza radicale del suo stato, in crescente globale crisi ecologica, non prima immaginabile?

In questa prospettiva, per Filippo Barbere, due, fra le altre, sono le possibili direzioni verso nuove forme di relazionalità sociale: una, è riscoprire l’azione, il fare le cose con altri, sperimentare nuove forme di organizzazione prodotte da un’inedita progettualità politica, socio-tecnica, dell’esperienza vissuta all’interno dei diversi contesti sociali; l’altra, è riattivare una sacralità della vita, una sacralità laica, basata sul riconoscimento dell’altro – in tutte le sue declinazioni –, sul «riconoscimento che l’altro è necessario a te e tu all’altro», come premessa per riconfigura il governo di una società che rimetta a tema l’oscena disuguaglianza di ricchezza e di potere oggi esistente.

(7, continua)

8. Interdipendenza: come costruire rituali sociali della reciprocità?

L’esistenza di una rete di interdipendenza funzionale, sempre più estesa, tra gli individui nella nostra società complessa – come è emerso nella conversazione – si riflette paradossalmente nella percezione all’interno dell’esperienza individuale di un isolamento, quasi di un’opposizione tra l’individuo e il resto della società. La preminenza di uno standard, così uniformante, dell’individuo chiuso, isolato e competitivo che altro è se non una modalità di autocontrollo, fortemente interiorizzato, funzionale ad assicurare l’adattamento degli individui a un determinato equilibrio del legame sociale esistente, e a perpetuarne l’ordine?

Un altro «senso della interdipendenza», della reciprocità sociale è possibile? Quella ricerca di spazi di condivisione pubblica alternativi – di cui si è parlato nel corso della cena – che altro sono se non tentativi – di resistenza, in lotta – di mettere in opera un equilibrio diverso tra richieste della convivenza sociale ed istanze di bisogni personali? Un equilibrio, che sappia riscoprire «l’importanza della fede secolare (Martin Hägglund) le [cui] radici [stanno] nella finitezza delle nostre vite e nella dipendenza reciproca».

«Noi siamo liberi perché ci chiediamo se stiamo vivendo in modo giusto». Una libertà, che non è la libertà liberale, come assenza di vincoli, ma una libertà riflessiva. Una capacità di interrogarsi, che alcuni biologi e alcuni psicologi riconducono a una caratteristica evolutiva di specie dell’animale umano. Ma questa caratteristica di specie dipende da condizioni storiche, dal modo di produzione materiale di una determinata società.

«A che condizioni quindi – ci chiede Filippo Barbera – è possibile ricostruire il senso dell’interdipendenza? In un mondo in cui le diseguaglianze sono così acute e gli immaginari così individualizzati, in cui l’altro o non esiste o è solo fungibile, a questa domanda è difficile rispondere». Una via possibile per tornare a interrogarsi su questo tema è la costruzione di “rituali dell’interazione”, della dipendenza reciproca – «regini di interazione dove fare esperienza della necessità dell’altro, come nella danza totemica, dove c’è un centro, un comune focus di attenzione, e dei corpi che in modo sincronizzato si muovono nello stesso spazio». Come, ad esempio, cucinare insieme.

(8, fine)

9. La costruzione del “noi” – Momento conviviale 1

Un’esperienza di coabitazione sociale

Silvia Loffredo: –  È un luogo che non ti fa stare solo anche se non partecipi. È proprio il luogo in sé, l’esperienza di coabitazione che è veramente particolare. La vita… ci chiedono quasi sempre relazioni che sono basate sulla performance, per cui le tue energie sono poche e allora magari le indirizzi su quelle piccolissime cose, tipo la coabitazione, su cui tu sai che puoi incidere, magari pochino, pochino, pochino…

10. La costruzione del “noi” – Momento conviviale 2

Cosa studiare nell’età della performance? Ciò che piace…

Elena Del Col: –  …nel tuo percorso a un certo punto ti trovi in una strada in cui non hai neanche l’immaginazione di pensarti in modo diverso da “quello che è”, e da quello che la società vuole che tu sia. […]
Arianna Perruquet: – Voglio fare questo, per fare cosa poi? C’è sempre questa domanda che ti ossessiona. Però poi hai deciso di fare qualcosa che ti piace… per fare poi [qualcos’altro], e non lo vedrei come un fallimento.
Sophie Bordet: È difficile non vederlo come un fallimento. Però hai fatto un lavoro personale per non vederlo come un fallimento, perché la pressione non è solo esterna, è anche interna, è interiorizzata. […] Studio, perché mi sento interessato a quello che sto studiando, e soprattutto lo percepisco non come un fallimento, ma come una ricchezza personale, un coltivare qualcosa per me stesso, qualcosa che magari non mi servirà, però mi ha dato gli strumenti per leggere poi il mondo in una maniera che sento mia. […]
Simone Stroppiana: Per tornare al discorso sulla comunità, in una comunità servono saperi diversi?
Nino Lucchesi: Servono saperi inutili.