“Dove finiscono le parole quando qualcuno ci volta le spalle senza spiegarci bene il motivo. Ci sentiamo derubati, ma non è del nostro amore che lamentiamo maggiormente il furto. Il dolore più irrisolto arriva dalle parole consegnate e mai più restituite, in nessuna forma.” (Da Lettera al mio Fantasma. Piccola epopea dell’assenza di Saba Anglana, AnimaMundi Edizioni, 2018)
Nella percezione che abbiamo dei comportamenti umani, gli esseri più generosi donano i loro discorsi come contenitori capienti, nati dalla stessa cura meticolosa con cui si intrecciano, per esempio, le talee di salice per i cesti. I meno generosi concedono invece il loro silenzio con la stessa pretesa che ha un colabrodo di trattenere l’acqua e porgerla a chi ha sete. Ma siamo sicuri che sia proprio così?
La comunicazione e il silenzio sono in reale antitesi tra loro? Come agisce l’assenza di parole nei nostri cuori e nelle nostre menti? Quanta paura abbiamo del Fantasma del Silenzio? Oppure ne abbiamo bisogno, in un’epoca di frastuono e di infiniti scranni virtuali?
Ad aiutarci ad esplorare i mondi che trascorrono tra la voce e il silenzio ci sarà Saba Anglana*.
1. Silenzio, assenza di parola?
Molte sono le immagini di silenzio. Da esplorare.
Su una iniziale, come assenza di parola, è possibile cominciare a riflettere.
La mancanza della parola è davvero solo una perdita di senso che nutre la nostra vita?
A volte, di certo, è una buona via di fuga dal rumore della modernità.
E anche «una sosta sul mondo», una tregua nella nostra esistenza, per sentirne una presenza più viva.
E, come dice David Le Breton: «È una forma di raccoglimento che permette di lasciar fluttuare i significati intorno per cogliere altri livelli di realtà liberi dai vincoli di senso entro i quali siamo costantemente imbrigliati. Si tratta di trovare quello stato d’infanzia smarrito, di spogliarsi temporaneamente dai vincoli dell’identità e dalla necessità di rispondere sempre di sé». (da Sovranità del silenzio, 2016)
Forse questo è il suono del silenzio. O, almeno, uno possibile.
(1, continua)
2. I molti sensi del “fare silenzio”
Che bisogno abbiamo del silenzio?
Il silenzio non è mai una realtà in sé. Si dà all’interno di un rapporto di noi con il mondo, con la natura e con l’altro; e si dà in relazione alla parola – fare silenzio, osservare il silenzio, ridurre al silenzio – relazione che, nei suoi molti modi, dice l’ambivalenza e l’ambiguità dell’esperienza del silenzio.
C’è il silenzio della parola, come assenza dell’altro o come sottrazione all’altro. Ma c’è anche il silenzio come intensificazione della presenza dell’altro.
Il silenzio insegna, sempre. Il suo significato è dato dal modo in cui il silenzio tocca colui che è in ascolto, quando la consistenza del suo esistere riverbera o meno nel silenzio.
Non sempre il silenzio è una sconfitta della parola.
(2, continua)
3. La qualità del silenzio, l’ambiguità del tacere
La morte è l’irruzione di un silenzio difficile da sostenere, ineludibile. È un silenzio che dice la nostra disposizione a mantenere, tra noi e il mondo, e gli altri, legami di senso.
Il silenzio che conserva, nell’esercizio della parola, la tensione verso un mondo di cui non si detiene già la comprensione, è quello che si apre alla domanda, suscita la ricerca, a comporre il percorso delle nostre vite.
È una qualità del silenzio che mette alla prova. Ed è a rischio di erranza lungo il percorso – come per Parsifal nella sua ricerca del Graal.
(3, continua)
4. Il silenzio interiore (in un mondo da cambiare)
La pratica del silenzio interiore è una disciplina del sé. Un esercizio, una cura di sé, una tecnologia di padronanza dell’esperienza di sé, basata sull’apprendere a farsi «soggetto osservatore» di tutta la propria esperienza.
È un dispositivo di disciplinamento della vita individuale, una ricerca individuale di salvezza, di fronte al caos, al “rumore “ del mondo? È il perpetuarsi di uno spazio di ricerca individuale e collettiva a fronte di una realtà economica, sociale e politica, che di fatto nega l’emancipazione effettiva, la realizzazione di sé, dell’individuo? Forse la ricerca del silenzio interiore è allora il sintomo di una relazione con il mondo, dallo svolgimento conflittuale, stretta da rapporti di potere che consentono a una cerchia ristretta, a élite economiche e politiche, di governare il destino della maggioranza di uomini e donne che abitano il pianeta.
Che farne allora del mondo che è da cambiare, del conflitto con la realtà? Vita interiore e mondo possono davvero essere indipendenti una dall’altro?
(4, fine)