Così David Le Breton, antropologo francese, ama parafrasare il cogito ergo sum di René Descartes. Dallo strappo cartesiano tra mente e corpo, è duro emanciparsi, anche nel nostro parlare quotidiano, di noi Occidentali. Sembra tuttavia che negli ultimi tempi, in più campi disciplinari, anche fra i nostri “stregoni” e specialisti della mente – come psicologi, psichiatri o neuroscienziati – si stiano facendo diversi tentativi per recuperare la dimensione della corporeità nella sua interezza e nella sua relazione di continuità con la psiche, l’ambiente, la società.
C’è bisogno di imparare a pensare la pratica corporea. Perché per quanto recluso, trascurato, offeso, declassato rispetto al pensiero, sezionato se malato, addomesticato se fuori norma, il corpo è sempre, ed è sempre in gioco. E può a buon diritto essere misura del mondo.
Ma cosa significa fare del corpo una chiave di accesso alla comprensione, non solo della storia, ma anche di ciò che accade oggi nella società?
A riservaci qualche sorpresa, anzi non poche, sul nostro bisogno di ripensare il corpo ci sarà Aurora Lo Bue.
1. Che cos’è un corpo, un corpo che danza nel mondo?
Sento, dunque sono, così David Le Breton, antropologo francese, ama parafrasare il “cogito ergo sum” di René Descartes. Dallo strappo cartesiano tra mente e corpo, è duro emanciparsi, anche nel nostro parlare quotidiano, di noi Occidentali. Ma che cos’è un corpo? E un corpo che sperimenta il mondo?
C’è bisogno, per Aurora Lo Bue, di imparare a pensare la pratica corporea. È lo che si può fare, a partire dalla pratica della danza. Un corpo che danza è una pratica sovversiva di riappropriazione dell’integrità corporea, di un corpo più spesso trascurato, offeso, declassato rispetto al pensiero, sezionato se malato, addomesticato o recluso se fuori norma.
Il corpo è sempre, ed è sempre in gioco.
(1, continua)
2. Avere un corpo o essere un corpo?
Quale definizione della nostra identità è sottesa nell’espressione avere un corpo? E quale, invece, nell’espressione essere un corpo?
Nell’esperienza della corporeità, in gioco è il senso vissuto dell’esperienza di sé. La sua definizione non è neutra. In essa si riflette il senso stesso del prendersi cura di sé e dell’altro, della relazione del nostro corpo con quello degli altri.
È possibile “assottigliare” lo scarto, la scissione occidentale, tra mente e corpo?
Forse, il «corpo sofferente», l’esperienza del dolore, è in grado di rimettere in gioco la percezione dell’integrità dell’esperienza di sé. Soprattutto se, come suggerisce Aurora Lo Bue, attraverso uno sguardo antropologico, si mette a confronto l’esperienza della corporeità, che ancora è dominante nella nostra cultura, con quella di culture altre.
Ma fin dove si estende il nostro corpo, se l’esperienza della corporeità significa costruire insieme, qui e ora, le coordinate spazio–temporali, in movimento, dentro le quali viene a definirsi ciò che siamo?
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3. Pensare, sentire: il pensiero incorporato, in movimento
Addestrarsi a sentire. Come fare?
Quali strumenti abbiamo a disposizione per recuperare la corporeità, l’unità di mente e corpo?
Qualche traccia di corporeità è rintracciabile già nella nostra vita quotidiana – dal camminare al fare l’amore – e nel nostro linguaggio. Si tratta di mettere in movimento il corpo, e di incorporare il pensiero.
Il «passo» è un pensiero incarnato. E qualcosa cambia. Anche nella nostra visione di noi stessi, della nostra individualità.
Si recupera il senso per cui l’essere umano si fa e si sa nel contatto, nella costruzione di uno spazio di relazione, in grado di far convergere sfera simbolica della mente e sfera dell’esperienza sensibile, della vita – il βίος – come vita sociale.
E, in fondo, che altro è il simbolico, se non questa convergenza?
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4. L’economia politica dei corpi: il corpo isolato
Cosa dice un corpo che soffre? Dice la sua presenza, urla il suo bisogno di cura, di legame con l’altro.
Ma in un’economia dello spazio pubblico, dominato dalla tecnica dei media, che disciplina i corpi alla “distanza”, cosa comporta la perdita di legami relazionali, non più basati sulla “prossimità”? È l’affermazione del “corpo isolato”.
Nella perdita del contatto, del piacere del contatto, cosa viene a mancare?
È possibile allora recuperare il valore del corpo? Un riappropriarsi dell’integrità del corpo? Per Aurora Lo Bue, questo recupero ha il valore di un atto politico, il senso un approccio al cambiamento, dove il contatto, l’esperienza del “corpo a corpo”, è ciò che dà al corpo il suo senso, e cioè il suo posto nel mondo.
(4, continua)
5. Il corpo nel mondo, il mondo nel corpo
Del corpo, se ne ha vergogna. Non è l’imperativo culturale della bellezza, della sua perfezione, a liberarcene. Anzi.
Vivere la corporeità, nel qui e ora, fa paura. Eppure lì, nel contatto del corpo, nelle sue connessioni – il corpo nel mondo e il mondo nel corpo – c’è la possibilità concreta di vivere l’intensità della vita. Una mistica quotidiana della vita, della corporeità del vivere: una questione di reciproca accettazione e di reciproca intensità tra il corpo e il mondo.
Alla fine, una domanda di Aurora Lo Bue: «Cosa succederebbe, se ci riprendessimo in mano il corpo»? La coscienza del corpo apre uno scenario politico: del cosa fare, e come, per stare insieme.
(5, fine)