La parola greca pharmakon (φάρμακον) tiene insieme due opposti significati, quello di “rimedio” e di “veleno”, un’ambivalenza che è propria di ogni “farmacologia”, anche quella dell’anima, di ogni esercizio di cura del sentire e del pensare che riguarda il nostro vivere.
Il pharmakon, con il suo assetto segregativo del sapere/sentire, è forse ciò che si richiede a una pratica riflessiva su forme di legame sociale tra soggetti diversi e molteplici che vogliano continuare a interrogarsi su quella che Michel Foucault definisce una questione essenziale per la cultura occidentale: «quando la verità è rimessa continuamente in discussione dallo stesso amore per la verità, qual è la forma di esistenza che meglio si accorda con questo continuo interrogarsi? Qual è la vita necessaria quando la verità non lo è più?»
(da M. Foucault, L’arte di vivere senza verità perché oggi ha vinto il cinismo)
Su questo tema vitale ci coinvolgerà Gino Pugliese.
1. Il pharmakon come attesa di cambiamento
Perché fare ricorso al pharmakon, a una molecola farmacologica, per la cura della malattia mentale? Perché contiene un’attesa di cambiamento.
Ma a che condizione? La modificazione del disturbo mentale, comporta un prezzo da pagare: la sua segregazione si risolve più spesso nella dissociazione del sentire per chi “dà di matto”.
L’approccio farmacologico è una modalità che guarisce?
Come saperlo, per Gino Pugliese, senza interrogare la follia?
(1, continua)
2. Pharmakon vs dialogo aperto
La «molecola efficace» del trattamento farmacologico produce un effetto di riduzione dell’uomo alla dotazione puramente biologica della vita – alla nuda vita dell’homo sacer (“sacer”, in latino, significa, appunto, separato).
L’approccio farmacologico investe la sfera del sentire e la vita emotiva, producendo, con la stessa efficacia del rito del pharmakos, una segregazione e una scissione della vita del soggetto all’interno di sé stesso.
Il pharmakon diviene qui l’espressione di un potere, pratico e simbolico, nel trattamento della patologia, non solo mentale, che, dando per scontata la crisi del legame sociale, finisce per regolare l’accesso al senso stesso dell’esperienza di sé, e divenire, a sua volta, espressione di una patologia della nostra vita sociale globale.
È possibile ricostituire quel senso di comunità, di socialità, di cui sentiamo il bisogno? Per Gino Pugliese, la pratica del «dialogo aperto», in psichiatria (ma non solo), offre forse, in questa direzione, una prospettiva di cura.
(2, continua)
3. Il pharmakon: terapia vs cura
La fragilità dell’altro ci interroga. A che cosa affidare la nostra capacità di rispondere alla patologia dell’altro, alla sua vulnerabilità? Basta affidarsi alla terapia del pharmakon? Una soluzione tecnica, che, in primo luogo, è garanzia della sopravvivenza, della conservazione della vita – come “zoé” – la nuda vita animale, naturale. O è necessario affidarci alla cura? Cura dell’altro che comporta una “pratica”, l’impegno attivo, concreto ed esistenziale del «prendersi cura» e, quindi, richiede anzitutto, una «dietetica», un’arte della cura di sé.
La fragilità in cui ci si riconosce richiede una trasformazione di sé – la costruzione di un soggetto che si sa “in relazione”, responsabile e solidale, di un “soggetto relazionale” che si riconosce nella co–esistenza della vita, come bìos, nella fondamentale interdipendenza di tutti in un’unica e plurale umanità.
Forse, questa qualità emergente di una capacità empatica della società, dell’essere in relazione all’altro, è già percepibile – e, a sorpresa, è la tecnologia dei nuovi media a renderla possibile.
(3, continua)
4. Il pharmakon: la società e la questione del dolore
C’è bisogno di un lavoro emotivo in grado di riattivare la libertà di «dis-sentire» – un dissenso interno, un sentire che ci rimetta in contatto con la paura per il mondo, con il dolore dell’altro. Perché è, questa, la domanda che proviene della follia, di cui il dolore è la trama essenziale. Una domanda oscura.
Ma «che fare» per rispondervi? Perché, oggi, la vita emotiva è catturata tra due patologie del sentire: da un lato, dalla ottusa voracità emozionale della società del consumo e, dall’altro, da una spasmodica ricerca anestetica della società dello spettacolo, – patologie che ci lasciano nell’indifferenza per il dolore dell’altro.
Tra la figura del consumatore e quella dello spettatore, è possibile pensare a strategie di correzione delle patologie del sentire?
(4, fine)