Il corpo come «luogo» dell’esperienza dell’identità individuale, cui riferire la nozione di sé autobiografico, non è affatto una cosa scontata.
La questione dell’anima, come espressione di una permanenza di sé, è diventata imbarazzante: un’entità difficile da immaginare in un qualche spazio, in un cielo, tanto salvifico quanto cosmico, o vagante per Campi Elisi o in qualche Iperuranio. Non ci resta che il corpo, la presenza del corpo. Presenza neppure poi così rassicurante. Anzi, ingombrante, e problematica. Il corpo è qualcosa che abbiamo o è qualcosa che siamo? Abbiamo un corpo o siamo un corpo? L’una o l’altra formula appaiono parziali, suscitano una qualche resistenza, e forse persino un po’ di ripugnanza. E per questo basta infatti guardarsi allo specchio. Un corpo sempre imperfetto, e che non sempre e, nel tempo, sempre meno fa da sostegno.
E forse il punto di partenza sta proprio lì, in questa esperienza elementare, davanti allo specchio. Mi guardo e dico: quello sono io. Sta in quel rapporto di sé con sé stessi, che già nell’atto di riconoscersi comporta un distacco. Non sono solo il mio corpo, sono anche colui che si osserva e si nomina.
È un guardare dal di dentro un mondo all’esterno o, viceversa, dal di fuori all’interno di un mondo. Come in Alice oltre lo specchio.
Questa esperienza di sé, quella della separatezza tra un «mondo interiore» e un «mondo esteriore», è forse tipica della nostra cultura e corrisponde a una formazione sociale specifica della coscienza e dell’autopercezione del corpo. La difficoltà sta nel collocare le varie componenti nell’immagine dell’identità dell’essere umano. Cosa sta «dentro» al corpo? Cosa sta «fuori»? Una dualità del corpo che è servita a produrre un apparato concettuale per comprendere l’identità di sé, secondo una spazialità variamente composta – corpo-anima, corpo-spirito, corpo-mente – e con eventuali ulteriori ripartizioni per il secondo termine.
Che poi quel che sta «dentro» non ci stia troppo a suo agio, è un’altra faccenda. E, in ogni caso, un limite per cui si sono approntate interessanti via di fuga. Oggi, c’è ne una inedita, la virtualizzazione, un’immagine digitalizzata del corpo che si presta a varie forme di dislocazione sensoriale «fuori» dal corpo stesso.
Cosa succede se poi la sensazione di stare «dentro» al corpo viene meno? E la tradizionale percezione del «dentro a» e del «fuori da» il corpo si fa confusa?
L’illusione della mano di gomma, come altri esperimenti sull’esperienza extracorporea, nell’ambito della neuroscienza cognitiva, sono una cosa abbastanza sorprendente.
È indubbio che quel che si sa oggi sul cervello accresce la descrizione della base organica della nostra vita mentale, la sua meccanica neuronale, «dentro» al corpo. Ma l’esperimento dell’illusione della mano di gomma fa qualcosa di più: mette in gioco la costruzione del nostro sé autobiografico rinviando a qualcosa che sta «fuori» dal corpo. E, per intanto, richiede che qualcuno lo tocchi, un essere in contatto.
Allora alcune questioni.
Lo studio scientifico della coscienza determina anche un cambiamento, nel discorso e nel linguaggio, riguardo al senso comune dell’esperienza di sé? È possibile, cioè, ricavare una diversa rappresentazione della condotta umana, e quindi anche del senso o del valore delle nostre azioni e delle nostre passioni?
E, in definitiva, sapere come funziona il nostro corpo, il nostro cervello, le sue strategie e le sue illusioni, quindi una conoscenza riflessiva, ci aiuta a comprendere meglio la nostra esperienza di noi stessi?
A giocare insieme a noi il gioco dello scambio tra realtà e finzione ci sarà Luca Angelone.
1. L’illusione del Sé autobiografico
Scrive Marcel Mauss: “è evidente che non è mai esistito un essere umano sprovvisto, non soltanto del senso del proprio corpo, ma anche di quello della propria individualità spirituale e materiale a un tempo.” (da Marcel Mauss, Sociologie et antropologie, Paris 1950)
Dopo alcuni esperimenti di neuroscienza cognitiva, come quello dell’«Illusione della mano di gomma», il corpo come «luogo» dell’esperienza dell’identità individuale, cui riferire la nozione dell’«io» e la sua costruzione, non è più una cosa scontata.
https://www.newscientist.com/article/mg19526221-300-mind-tricks-six-ways-to-explore-your-brain/
(1, continua)
2. Il bisogno di storie (e di anima)
Abbiamo bisogno di storie per la costruzione dell’identità, della nostra unità individuale nel tempo. Per le teorie che si rifanno alle scienze cognitive, come quella de Il tunnel dell’io di Thomas Metzinger (2010), l’idea però di una storia autobiografica è un’illusione costruita a posteriori. Non c’è più un centro, l’unità di un soggetto – un’«anima» – capace di essere la causa della propria storia.
Ma allora che ne consegue?
Per Alessio e Rino, è l’occasione di sperimentare una pratica di liberazione, di disidentificazione, dall’attaccamento al proprio “Io”, alla propria identità – in assonanza con la visione buddista della vita.
(2, continua)
3. Il bisogno di storie (e il senso della vita)
Siamo costruttori di storie. Abbiamo bisogno di storie autobiografiche per dare senso alle nostre vite, e anche soprattutto per stare bene.
Ma cos’è una storia di sé? E perché funziona? A che condizione è una storia che risana?
(3, continua)
4. Il bisogno di storie (e la convivenza sociale)
Nella nostra età di crisi, la scoperta che l’identità di sé è una costruzione probabilmente illusoria, anzi fittizia, è una disgrazia o un’opportunità?
E, con il venir meno di figurazioni rigide e fisse delle identità individuali, su che base regolare la convivenza sociale, la costruzione della società?
(4, continua)
5. Noi siamo il nostro corpo?
A partire dai risultati delle scienze cognitive, qual è la rappresentazione di sé di cui possiamo disporre? E poi qual è la relazione tra rappresentazione di sé e il «vivere bene» nella convivenza sociale?
Perché facciamo fatica ad ammettere che «noi siamo il nostro corpo»?
Nella stessa esperienza di cui il corpo è capace e, al tempo stesso, nelle modalità con cui ne diamo una rappresentazione (culturale), forse è in gioco qualcosa di più: forse c’è da ravvisare «più uno sconfinamento dello spirito nella carne che un mero divertimento di quest’ultima» (Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano)
(5, fine)