«Che cosa è, allora, il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede, non lo so.» (Agostino, Le confessioni)
Vale ancora quanto dice Agostino? Davvero l’esperienza del passaggio del tempo possiede il carattere di un’evidenza immediata? È qualcosa che possiamo attribuire alla realtà? È parte del senso del viaggiare nel tempo, del nostro vivere, con la sua ineludibile lineare direzionalità?
Le attuali teorie scientifiche e filosofiche hanno complicato un po’ quest’immagine semplice del tempo, ad esempio, con la loro provocazione del viaggio nel tempo, che ha invaso l’immaginario della letteratura e della cinematografia fantascientifica.
Ma forse anche qui vale quanto Amleto ci ricorda: «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia.»
Perché allora non provare a confrontarci su queste domande: siamo in presenza di un radicale cambiamento nella concezione del tempo? È un cambiamento che presenta qualche analogia con ciò che avvenne nella transizione all’epoca moderna, con l’avvento del «tempo del mercante», e di un «universo della precisione»? A ciò corrisponde un analogo cambiamento della società, oggi?
Allora, in quel passaggio, si produsse un nuovo paradigma della condizione umana.
Oggi, che succede? È necessario far seguire una più pertinente riflessione antropologica sulla nostra condizione?
Ad aiutarci a capirne qualcosa di più ci sarà Giuliano Torreng
1. Il «senso» del tempo?
«Se non mi chiedono cos’è il tempo, lo so» disse una volta il vecchio saggio, «ma se me lo chiedono, non lo so» (Norbert Elias, Saggio sul tempo). Perché chiederselo allora?
E la risposta è: che forse dal problema del tempo possiamo apprendere qualcosa sull’essere viventi, e quindi anche su noi stessi. Che, oggi, forse siamo un po’ in “crisi” con l’uso del tempo.
PS: Ah, la videoregistrazione della cena ha rischiato di finire in un tunnel temporale irreversibile
(1, continua)
2. I «livelli» (?) del tempo
Parlare del tempo è qualcosa che facciamo d’abitudine, come di una realtà che quasi va da sé.
A cena, ci siamo spinti a definire i «livelli» con cui possiamo parlarne. Pare siano quattro. Cinque, in realtà. Il primo è quello dell’esperienza soggettiva, ed è distinguibile sotto due modalità diverse dell’esperienza individuale del tempo.
A questo segue un secondo livello, quello dell’esperienza sociale, simbolica, del tempo, e, a questo, un terzo, quello riflessivo, concettuale, sui fondamenti della realtà del tempo.
Per il quarto, secondo la teoria della relatività, quello dello spaziotempo, della realtà quadridimensionale dell’universo, non abbiamo avuto fortuna.
Siamo rimasti in attesa di un ipotetico viaggiatore dell’universo che fosse transitato vicino alla terra a una velocità prossima a quella della luce. Non è però arrivato. Altrimenti, avrebbe potuto confermarci che, per noi sulla terra, la nostra cena è durata soltanto quattro ore, e ciò indipendentemente dal senso soggettivo, per ognuno di noi, del suo scorrere, e al di là del fatto che era l’ora della cena, secondo la nostra convenzione sociale; per lui, invece, la cena sarebbe durata centinaia di anni.
PS: Durante la cena si è fatto un po’ di confusione tra i livelli. Quello denominato “quarto” è in realtà il “terzo”. Del quarto, appunto, non c’è stato tempo di parlarne.
(2, continua)
3. Esseri liberi (?) nel tempo
La questione del tempo ci invita a fare qualcosa di inusuale. E, cioè, a separare la spiegazione dall’esperienza che vogliamo spiegare. E, chissà perché, questo succede ogni volta che, a tavola, si comincia a guardare con sospetto un bicchiere di vino nella nostra mano. [Vedere Cena n°. 21° e 14° di C O N D I R S I]
Di solito, se diciamo: «Sul tavolo c’è un bicchiere di vino rosso» e qualcuno ci domanda: «Come facciamo a sapere che è così?», e noi rispondiamo: «Lo vediamo, è lì!», stiamo parlando come se la capacità di vedere fosse una nostra proprietà intrinseca che non si mette in discussione. Nella vita quotidiana, la cosa funziona e, di fatto, fa comodo che sia così.
Insomma, assumiamo che le nostre capacità cognitive sono proprietà che ci fanno essere quello che siamo, e in grado di interagire con la realtà. E infatti, Giuliano, nel frattempo, si è sorseggiato un goccio di vino.
La cosa si complica se però cominciamo a porci domande riflessive, come appunto: che cosa ci dice su noi stessi l’esperienza del passaggio del tempo? Viviamo davvero in un tempo presente che scorre tra un passato e un futuro?
È una domanda che ci costringe a chiederci qual è l’origine della nostra capacità di sapere in cosa consiste il fenomeno che chiamiamo tempo. Il passaggio del tempo è un’espressione fondamentale della realtà, che la nostra «percezione» è in grado di conoscere? O è una nostra «illusione»? E siamo in grado di distinguere tra le due cose?
Per Giuliano, a questo proposito, pare che ne vada del senso stesso della nostra libertà e, anzi, della nostra stessa creatività. Perché, se così non fosse, come avere ancora il «senso della possibilità» nella nostra vita? Come pensare di «poter fare altrimenti»?
(3, continua)
4. «Decidere» (?) del tempo
A questo punto della cena, Francesco ha posto un problema. Di non facile soluzione.
Ma, per farla semplice, la questione è questa: in genere, ci sentiamo di continuo esposti a forze ineludibili che sembrano governare le nostre vite. E il tempo è una di queste. Ma, per Francesco, parlare di questa esperienza come di qualcosa che esiste «al di fuori» e «al di là» di noi, come fa la teoria scientifica, è una fregatura.
Significa rinunciare alla possibilità, per tutti noi, di «gestire» il tempo della convivenza sociale. E quindi di porre, con legittimità, la domanda: ma che società, che mondo vogliamo?
Eppure, il tempo è una realtà che ci riguarda, cui pure cerchiamo di dare una forma, una direzione. Cerchiamo di «guadagnare tempo», di non «perdere tempo», di «impegnare il tempo» e, soprattutto, di «prevedere», insomma di «decidere» del tempo.
Prevedere il futuro, nel processo del nostro vivere insieme, sembra però la cosa che sappiamo fare meno di tutto. E quando poi, in tempo di crisi della società, ci si affida alla proiezione di modelli teorici, ricavati come da una realtà indipendente dagli individui (ad es., il mercato per la scienza economica), sembra che ne scaturiscano solo disastri.
È, di certo, come sostiene Giuliano, un problema dello stato della nostra conoscenza. Un’insufficienza dei nostri strumenti linguistici e concettuali a comprendere la realtà della nostra convivenza.
Ed è probabile che sia una questione di errore. Allora, la sua scoperta la possiamo solo delegare al tempo. Un errore lo si scopre solo a posteriori, in seguito. Il sospetto che, invece, si tratti di un deliberato inganno, a impedire l’espressione di una diversa esperienza del nostro «essere sociale», a volte è forte.
(4, continua)
5. Viaggiare nel tempo – Parte 1a
Qui la conversazione a tavola si complica.
La possibilità del «viaggio nel tempo» apre scenari mentali. E a sorpresa. Perché mette in discussione una nozione fondamentale per la comprensione dell’azione umana, quella di libertà.
E, alla fine, non è scontato quale sia la risposta alla domanda: che cos’è la libertà?
(5, continua)
6. Viaggiare nel tempo – Parte 2a
Per finire. Il tema del viaggio del tempo – un’elaborazione intellettuale sull’organizzazione dell’universo osservabile – è un punto di incontro, una linea di intersezione tra i processi della natura inanimata e quelli della natura umana.
Il viaggio del tempo (nel passato) ci costringe a vincolare il senso della nostra azione all’impossibilità di «fare altrimenti», e ciò nell’ipotesi di un’unica linea temporale, che, in definitiva, è quella della sola e unica nostra vita. La cosa non è poi così malvagia come sembra. Anzi, ci si guadagna qualcosa.
Il viaggio indietro nel tempo che cosa ci mette in grado di osservare di noi esseri umani? Anzitutto, che il nostro essere è in costante movimento, non un essere che permane immobile lungo un flusso temporale, di un presente che scorre tra un passato e un futuro; ma un essere che si sviluppa, che si costruisce secondo «l‘ordine immanente della continua successione entro la quale, volta a volta [nel qui e ora], una forma posteriore deriva senza soluzione di continuità dalla precedente, la giovinezza dall’infanzia, l’età adulta dalla giovinezza». Insomma che «l’uomo “è” un processo». (Norbert Elias, Che cos’è la sociologia?) E di cui occorre forse ricordare che ha una fine.
E ciò, se ci importa quel che ci dice la scienza fisica. Che cioè le relazioni temporali, del «prima» e del «dopo», sono più fondamentali della relazione illusoria del passaggio del tempo, tra un passato, un presente e un futuro.
E poi, perché però la teoria scientifica ha ancora bisogno di partire, nella sua osservazione, dal concetto tradizionale di «individuo», cui è più facile attribuire quel «senso» di libertà senza condizioni, senza vincoli, che ne fa un individuo isolato, chiuso in se stesso, quasi onnipotente, indipendente dalla contingenza dei suoi legami sociali? È una nozione di cui è forse meglio imparare a fare a meno.
Resta ancora una domanda: quali sono allora le caratteristiche specifiche della nostra «natura» – il come siamo fatti – che rendono possibile la storia? Che rendono possibile il cambiamento e, in particolare, la creazione di nuovi legami sociali?
(6, fine)
7. Postilla – Con una valigia di desideri…
C’è una cosa che intriga la nostra viaggiatrice nel tempo: avere la libertà di cambiare il corso delle cose, di poter fare le cose in modo diverso. La viaggiatrice è carica di desiderio, ne ha una valigia piena. Ora può disporre di un dominio di sapere, di informazioni, di cui non era a conoscenza fin dall’inizio della sua storia. Ma presto scopre che, lungo la sola e unica linea temporale che gli è concessa, tutto o quasi sarà come prima, tutto la riconduce, come a forza, là da dove è arrivata. Se solo potesse riavvolgere il tempo e ripartire da capo.
Un esperimento mentale scoraggiante? Fallacia del desiderio?
Quel che ci resta – come nel film di Massimo Troisi – è piangere? A che condizione allora si produce la nostra libertà? Scoprire di essere l’inizio o, almeno, la condizione di partenza di un processo che si produce come conseguenza delle nostre azioni ci soddisfa? Ci basta sapere, come dice Giuliano, che noi siamo importanti, perché siamo noi a scrivere la nostra storia? Ma appunto che storia siamo?
È necessario sapere tutto fin dall’inizio? Come altrimenti produrre «una differenza», cioè quell’informazione che fa la differenza, secondo in conformità ail nostro desiderio? Forse non è necessario. Perché, anzi, non invertire i tempi, e farci subito carico dei nostri desideri nel qui e ora del nostro abitare il mondo.
È nella possibilità di farci carico del volere o meno le conseguenze del nostro fare che si produce la libertà e, al tempo stesso, la responsabilità del nostro fare nel mondo. E cioè l’una e l’altra – per usare le parole di Humberto Maturana:
«libertà e responsabilità intervengono nella riflessione che espone il nostro fare [inscritto] nell’ambito delle emozioni al nostro volerle o non volerle, in un processo nel quale non possiamo se non renderci conto che il mondo in cui viviamo dipende dai nostri desideri».
Edoardo, con le parole di Gino De Dominicis, ci ricorda che noi siamo «antichi», eredi di un fare creativo che, nel corso dell’educazione della nostra umanità, è già un arrivare «da dopo» nel nostro viaggiare nel tempo. E allora forse l’unico viaggio a ritroso che ci è concesso risiede nella nostra educazione, nell’educazione ad apprendere la cura per il nostro fare. La cosa è di qualche utilità solo a questa condizione. Ancora Humberto Maturana:
«Se l’educazione non spinge i giovani verso la responsabilità e la libertà di essere co-creatori del mondo in cui vivono, limitando la riflessione, l’educazione serve a poco o niente»
Allora, forse è lì, nella nostra capacità di riflessione, di uno sguardo responsabile su ciò che rende desiderabile il nostro abitare lo spazio e il tempo, la possibilità di costruire un mondo e farne un’opera d’arte.
(7, fine)