Il «banchetto», il pasto consumato insieme, è il tema scelto per il II Anniversario di C O N D I R S I.
Il banchetto è un archetipo culturale, e qualcosa di più di una semplice pratica alimentare. Il suo più ampio significato sociale e rituale è qualcosa che vale la pena esplorare: dalla sua origine sacrale, come «Banchetto Divino», fino alla sua rivisitazione provocatoria nel Pasto Nudo di William Burroughs.
La trasversalità e la persistenza della simbologia e delle pratiche legate alla tavola, nella doppia espressione di sacro e profano, indicano nella tavola il luogo privilegiato in cui si ricrea ad ogni epoca la socialità dell’uomo.
Omero narra degli dèi a banchetto così: «Per tutto il giorno, fino al tramonto del sole, essi se ne stanno al festino e il loro cuore non deve lamentarsi di un pranzo in cui tutti hanno la propria parte». È forse nella figura della fame, tra saziabilità e insaziabilità, che si definisce la misura del nostro appagamento? Degni dell’«ospitalità divina», del dono del cibo ben ripartito? O dannati al supplizio di Tantalo, alla molestia di una fame illimitata?
Ad aiutarci a riflettere su questo tema Luca Patrizi.
1. L’archetipo del banchetto divino
È sempre un buon punto di partenza «cominciare da dove si è». Ad esempio, attorno a un tavolo. E, poiché noi si era lì riuniti per festeggiare il II Anniversario di C O N D I R S I, ci è sembrato bene mettere a tema l’archetipo, il modello simbolico, del banchetto, e le sue origini.
Ed è così, allora, che Luca Patrizi ci ha invitato a mettere a fuoco, con uno sguardo da lontano, l’origine dell’immagine del banchetto, dell’invitare a mangiare o radunare intorno alla tavola – «adab», in arabo – in quella dimensione dell’esperienza che è «fare sacro» il mondo. E, anche solo, ad immaginare di stare a tavola con gli dei.
Ma noi poi, come stolti, avremmo voluto precipitarci «là dove gli angeli esitano a mettere piede» (Alexander Pope).
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2. Dal pasto insieme agli dei… ai disordini alimentari
Nell’offerta del pasto materiale agli dei si nasconde un’insidia. I primi, a farne le spese, i Titani, Prometeo e Tantalo, dannati a una pena eterna, per aver portato una sfida, di intelligenza e arguzia, alla scienza degli dei.
Nel banchetto materiale, si attualizza l’esperienza della socialità della nostra sopravvivenza di specie, la fragilità condivisa della nostra condizione.
Al tempo stesso, si rinnova la sfida che attenta ai doni che il cibo e le bevande riservano agli dei (l’ambrosia, il nettare o altre sostanze inebrianti): una conoscenza immutabile, una felicità imperitura, una condizione di immortalità.
In uno scambio simbolico tra materiale e spirituale, non ci basta che nel cibo si esprima ciò che ne fa quello che è: la soddisfazione di un bisogno naturale, una sostanza per una condizione di salute della nostra vita. Desideriamo di più: innalzare il cibo a sostanza per corroborare, dar forza all’intelligenza, e mantenere una promessa di felicità. E che il «sapere» sia nutriente come il cibo, appetibile come il suo sapore.
A tavola, si aggira, come Ganimede, il coppiere degli dei, il rischio del nostro destino di specie: tra debolezza e volontà di potere, tra amicizia e ostilità, tra liberazione e sottomissione.
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3. Il sacrificio… in punta di forchetta
Un po’ alieni dalla pratica del sacrificio. Estranei alla ritualità del banchetto sacrificale. Eredi di un’antica cultura conviviale. Educati alle buone maniere a tavola. Ancora ci pare inviolabile il piacere della convivialità.
Ma – forse perché l’energia primordiale che discende dall’archetipo del banchetto esercita ancora un’attrazione felice – un sospetto ci sfiora: che uno scenario di sacrificio sia ancora necessario per dare un ordine al caos, all’odierna distribuzione diseguale, tra scarsità e abbondanza, nell’accesso al cibo.
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4. Dal mito di Tantalo… alla mela di Apple
A parlar di cibo a tavola, e la cosa sembra inevitabile, si finisce per parlare di intelligenza. Attorno al tavolo, dal banchetto sacrificale dei Titani al morso della mela di Apple, ciò che è in gioco è la sfida dell’intelligenza.
Di quale intelligenza, però?
L’intelligenza che contempla archetipi, essenze immutabili, fuori dal mondo? O l’intelligenza pratica, impegnata nel divenire del mondo?
Noi, che siamo immersi in difficoltà pratiche, e in condizione di lotta più spesso, di quale intelligenza abbiamo bisogno? Quale sia la più adatta appare ovvio: l’intelligenza versatile e contingente, che sa utilizzare qualità intellettuali come la prudenza, la prontezza o l’acutezza, e non disdegna di impiegare l’astuzia o anche la menzogna.
Un’intelligenza che è in dotazione ai Titani, astuti ospiti degli dei.
Di Prometeo, colui che riflette prima, o di suo fratello gemello, Epimeteo, colui che comprende solo dopo, due facce di uno stesso personaggio, i cui doni a beneficio dell’umanità finiscono però per volgersi contro l’umanità stessa. O, ancora, di Tantalo, che finisce per essere preso lui stesso nella trappola che aveva predisposto.
L’appetibilità del frutto dell’albero della conoscenza, l’intelligenza, è ancora lì a tentarci? Ma davvero ormai la si può appagare solo più nella forma di un logo tecnologico?
(4, fine)