Perché scrivere di sé? Perché affidarsi al ricordo soggettivo, per costruire un’identità personale?
Ricordare non è la stessa cosa che recuperare un dato da un deposito di memoria, cumulata attraverso una procedura di registrazione. Il ricordo si attiva al presente. E la sua scrittura richiede tempo. E, poi, come il tempo della scrittura interviene nel processo di ricostruzione del tempo personale, del passato?
Il ricordo soggettivo, su cui poggia la scrittura di sé, è però un processo a rischio: del passato personale si può avere ricordo o non averne affatto. Il tempo che si iscrive in questo processo, è segnato dalla discontinuità dell’oblio. Una perdita, una mancanza di memoria, di una memoria impossibilitata o addirittura impedita (si dimentica o si rimuove) a richiamare, nella sua integrità e interezza, l’esperienza soggettiva.
Di quali informazioni dispone un individuo su sé stesso e sul mondo di cui fa parte? Che cosa dunque è possibile conoscere di sé attraverso la scrittura o l’arte di raccontarsi, insomma, l’autobiografia.
Tutto ciò che siamo è in fondo parte di una storia, e ciò che siamo è il risultato di una storia. La sua scrittura non è altro che un modo per ricostruire i dati dell’esperienza di sé, di cui si dispone. Ma quanto è attendibile questa ricostruzione?
Di una storia, anche se è una storia falsa e, anzi, la storia sicuramente è falsa, sembra però che se ne abbia proprio bisogno. Che senso ha allora raccontare di sé? È un raccontarsi o un raccontarsela?
Con la partecipazione di Elena Pugliese ne sapremo qualcosa di più.
1. La scrittura di sé è al plurale
Qual è il senso che la scrittura di sé, una storia autobiografica, ci restituisce?
«La cosa bella di un’autobiografia – dice Elena Pugliese – è la veridicità della propria storia». Un’autenticità che scaturisce da un «patto di onestà» con sé stessi: un guardare indietro per vedere cosa è successo, e fare ordine nella propria vita. Ed è questa «la cosa affascinante: che nella scrittura di sé avviene di fatto una contro–narrazione. Ci si racconta in maniera diversa, e si capisce come il ricordo di sé, per quanto sia sempre lo stesso, nel corso della narrazione cambia in ordine al tempo della propria personale evoluzione. Così non abbiamo un’autobiografia, soltanto ma tante autobiografie».
Nella scrittura autobiografica, quindi, si crea un altro da sé, uno sdoppiamento di sé, anzi, un sé mutevole, e molteplice nel tempo.
Al tempo della storia, poi, si aggiunge il tempo della scrittura. Che è un darsi tempo, un prendersi cura di sé, un tempo da difendere, per stare dentro di sé, dentro il percorso, che è l’atto di scrivere, e creare la composizione della propria vita. «Dare ascolto a sé stessi è dare valore al percorso, a quello che si è al presente».
(1, continua)
2. Il potere delle storie
Qual è il potere delle storie di sé, delle autobiografie?
Essere la verità di te di quel momento, una verità che cambia, in seguito, e che ti cambia. Una verità esistenziale, è «la palla che ti racconti», dice Fabio Scandura, ma «è una palla piena di significato», aggiunge Massimo Arvat. È l’interpretazione che dai al tuo vissuto oggi, ma – e la cosa è interessante – possiede un potere trasformativo, e può svolgere una funzione terapeutica.
Non importa se vera o falsa, basta che sia verosimile. Un’autobiografia soddisfa un libero criterio di unificazione, di organizzazione, un criterio di coerenza interna; e proprio perciò è utile a ricomporre la frammentazione della vita in un mondo fluido, mobile, soggetto a trasformazione continua, fin dentro gli accadimenti della storia.
A questo proposito, Massimo Arvat ci ricorda che la narrazione autobiografica è un metodo di cura, una modalità di guarigione. «È un lavoro che si fa sul linguaggio, sulla memoria e che agisce sulla biologia del cervello. Indipendentemente dal suo contenuto di verità, la narrazione ci aiuta a ricostruire un circuito di senso delle nostre vite». È un meccanismo di costruzione di senso. Produce una trasformazione del soggetto, serve a vivere, ad adattarsi alla quotidianità del mondo.
Ma se il mondo, così com’è, non va bene?
L’autobiografia è forse il tentativo di praticare una forma di resistenza o di guarigione. Un approccio terapeutico alla difficoltà di vivere. Lo è attraverso la sua stessa struttura. Una storia autobiografica, come per ogni racconto, si affida infatti alla finzione narrativa – quella del “viaggio” di un soggetto agente, delle sue peripezie, in una successione di prove, di un punto di svolta cruciale – per dare senso a una vita.
(2, continua)
3. Che cosa è una storia? E una storia da cambiare?
Che cos’è una storia, che un uomo può raccontare; e che cos’è un uomo, che può raccontare una storia?
La costruzione di sé oggi sembra essere a rischio. È un tempo, questo, che davvero ostacola la formazione un’identità di sé stabile.
A quale criterio di connessione, di unificazione, affidarsi per comporre una coerenza, della propria vita, sempre aperta a nuove esperienze, in un continuo divenire?
Ma che cosa è una storia? E una storia autobiografica?
Forse è utile citare Gregory Bateson:
Una storia è un piccolo nodo o complesso di quella specie di connessione che chiamiamo pertinenza. […] a mio avviso un qualunque A è pertinente a un qualunque B se A e B sono entrambi parti o componenti della stessa ‘storia’. […] Che cos’è una storia che possa connettere gli A e i B, sue parti? ed è vero che il fatto generale che le parti sono connesse in questo modo sta alla radice stessa di ciò che è l’esser vivi? Vi propongo la nozione di contesto, di struttura nel tempo.
(G. Bateson, Mente e Natura. Un’unità necessaria)
Una storia è quindi un contenitore, un contesto di ricezione. Una storia autobiografica, un contesto per un vissuto che affiora dalla memoria, che si stabilizza in una connessione, attraverso una selezione pertinente di ricordi dell’esperienza, e che si riorganizza in una struttura, in una sequenza esperienziale, in una storia di sé, appunto. È un campo di forza che cattura i ricordi e fa assumere loro una nuova consistenza: ciò che prima giaceva in memoria come semplice dato, un frammento sensoriale, percettivo o emozionale, senza legame, si trasforma in parola, concetto e simbolo del linguaggio, il cui senso si applica alla nostra stessa vita; una trasformazione di cui noi siamo l’oggetto, lo strumento e, al tempo stesso, il soggetto di questa stessa pratica.
L’identità di sé è l’esito di questa pratica, di questa costruzione, a costo di essere rivedibile, molteplice, “al plurale”, di più storie di sé, nella successione del tempo. Ognuna è espressione di uno sforzo continuo di assemblaggio, è un collage che si compone per stratificazioni successive rivolto al mondo della nostra interiorità. Questo il prezzo oggi da pagare per la conquista di un senso di continuità e di scopo, di coerenza, di quella connessione che «sta alla radice di ciò che è l’esser vivi» e che, a sua volta, ci colloca in quel più ampio contesto che è il nostro posto nel mondo. Dove forse ci sono storie da cambiare.
(3, fine)