«L’uomo macchina», descritto da J.O. de la Mettrie, è davvero la «morte dell’anima»? O questo modo di porre il problema dell’immagine dell’uomo – del dualismo tra corpo e mente – è l’inutile residuo di un simbolismo linguistico della tradizione culturale dell’Occidente?
L’immagine dell’uomo come macchina neurobiologica, che emerge dalla ricerca e dalla pratica delle scienze del cervello, ci restituisce forse un’immagine più realistica. Quella, appunto, di una macchina non banale, una macchina complessa nel suo «funzionamento», per cui la realtà è quella di un parallelismo – un accoppiamento strutturale – di variabili molteplici, ambientali, biologiche e personali. Un’immagine, poi, che ci aiuta a portare l’attenzione sulla costitutiva fragilità della vita umana.
Questa nuova figura di uomo-macchina è davvero così indigeribile?
A sostenerci nell’assimilare questa nuova comprensione della «macchina umana» ci sarà Camilla Carbone
1. La macchina umana è dentro un ambiente
L’essere umano, macchina neurobiologica? Una macchina, per le scienze del cervello, la cui osservazione restituisce l’individuo alla complessità del reale, e per cui la frattura tra corpo e mente vale soltanto come un inutile residuo linguistico della tradizione culturale dell’Occidente.
È una definizione che, per Camilla Carbone, rinvia al fatto che la malattia – come il decadimento cognitivo, nelle sue molteplici manifestazioni – è sempre una ‘verità’ singolare: il «funzionamento» della macchina si riferisce sempre all’individuo nella sua storia, un individuo che si compone di molteplici variabili, biologiche, emotive, personali, e che nell’imparare a costruire uno spazio fisico, un ambiente, già da sempre sociale e culturale, ne viene a sua volta costruito.
Ma, davvero, oggi la pratica medica, l’arte della guarigione, è all’altezza di tale immagine dell’essere umano? Come sapere di un osservatore che partecipa alla costruzione del suo stesso oggetto di osservazione?
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2. Macchina, una metafora per l’essere umano?
La metafora della macchina, per descrive o definire l’essere umano, risponde certo al criterio “riduzionista” delle scienze dure. Ma, come ogni metafora, ha il potere di mettere in evidenza qualche aspetto significativo dell’esperienza umana della realtà.
L’idea-chiave è quella del “funzionamento” umano. Da una parte c’è la sua efficienza, un parametro di valore; dall’altra c’è la soglia della fragilità – il decadimento – della creatura umana, e la sua debolezza, anche quotidiana. E, quest’ultima, ci fa ricredere su quel sentimento per cui ognuno esiste solo per sé stesso, come a sé stante. E ci ricorda invece che abbiamo bisogno degli altri per dare senso alla nostra vita.
E la conversazione a tavola si è fatta vivace.
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3. La fragilità della macchina umana
In effetti, la metafora della macchina applicata all’essere umano rimane al fondo ancorata a un’immagine di auto-consistenza, nel suo “funzionamento” e, per quanto il suo grado di complessità possa essere elevato, pur sempre riparabile, a ingranaggi o a pezzi sostituibili.
Ma come dimenticarsi che la “costruzione” della macchina umana non è già autonoma fin dall’inizio. Che noi siamo esseri dipendenti dal processo di apprendimento della nostra stessa costruzione. E anche che il nostro “decadimento”, la nostra fragilità, è il punto di partenza per riconoscerci in una comune umanità: che abbiamo cioè bisogno degli altri per apprendere?
E poi è proprio vero che le condizioni reali della nostra vita sociale ci permettono di realizzare la libera espressione della nostra personalità? Allora perché «il chiedere aiuto» è di fatto un tabù sociale?
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