Il “contagio psichico” di massa è l’aspetto più evidente dell’esistenza di ciò che cerchiamo di definire, e indagare, come «inconscio sociale». Ne facciamo esperienza come di onde emozionali la cui direzione può andare verso l’esaltazione (come nelle folle totalitarie) o verso l’angoscia e la depressione (come di fronte al diffondersi di un’epidemia o al terrore nei confronti di un indecifrabile nemico). I due stati d’animo possono pure alternarsi e succedersi rapidamente l’uno con l’altro.
Ma c’è di più. C’è un inconscio sociale meno clamoroso, più inavvertito, nelle pieghe del quotidiano e delle sue forme di vita. E sulla sua esistenza occorre interrogarsi.
Intanto, occorre dire che l’inconscio sociale non è la stessa cosa dell’inconscio collettivo di Jung, benché non manchino punti di contatto e affinità. L’inconscio di cui si parla appartiene all’esistenza sociale di una collettività, storicamente determinata, divisa tra il modo in cui rappresenta sé stessa e l’immaginario da cui inconsapevolmente è posseduta.
E la crisi pandemica in cui ci troviamo ha modificato in qualcosa questa situazione di fondo?
Insieme a Mario Pezzella si potrà cominciare a riflettere su come l’indagine sull’inconscio sociale si apra a prospettive plurali e differenti nella comprensione della quotidianità della nostra vita collettiva.
1. Che cos’è l’inconscio sociale?
Che cosa del comportamento sociale rimane “inconscio”, senza consapevolezza? Per Mario Pezzella è ciò che della esperienza sociale è soggetto a trauma, individuale e collettivo.
E il trauma riguarda gli individui come società – è l’«inconscio del collettivo» (Walter Benjamin) – per il suo carattere fondativo, che è radicato nel suo sistema patriarcale di educazione dell’infanzia e nell’esperienza storica della violenza della guerra.
Al fondo, c’è l’esperienza della morte, del lutto. E oggi è difficile fare i conti con il suo trauma, in un’epoca appunto di dissoluzione, operata dalla società capitalistica, delle forme tradizionali della civiltà – come i riti collettivi.
Come allora riuscire a elaborare insieme il trauma collettivo?
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2. Inconscio sociale: tra stato di crisi e pandemia, oggi
Come si gestisce un’emergenza sanitaria globale? Per Mario Pezzella, è il regime politico-economico complessivo che determina la qualità e il modo in cui si affronta un’emergenza sanitaria. E di fatto l’Occidente è in uno stato di crisi, e di emergenza, che data dal crollo delle Torri Gemelle a New York nel 2001 – almeno come evento simbolico – e che l’attuale situazione pandemica non fa che intensificare. E oggi, sull’esigenza di un controllo sociale, di una salvaguardia collettiva della salute come bene comune, sembra prevalere una gestione economico-finanziaria e politico-autoritaria dell’emergenza sanitaria Covid-19.
Quale tonalità emotiva di fondo – una condizione psichica collettiva e individuale – si sta producendo in questa situazione protratta di emergenza, al cui interno già nel 2008 si è verificata una grave crisi economico-finanziaria? E tale movimento dell’inconscio sociale quale impostazione di politica economica sta favorendo oggi in Europa al fine di contrastare la recessione economica (calo dei redditi, incremento della precarietà e della disoccupazione) seguita all’emergenza sanitaria?
Sulla base di precedenti storici, in analogia con il presente – come la nascita del fascismo o del nazismo –, è allora lecito cominciare a domandarsi come si instaura una direzione autoritaria nel governo della società. E la protesta oggi che sale dalla piazza a rivendicare «libertà, libertà!», in una chiave prevalentemente individualista, come può essere davvero improntata a una «buona vita» sociale, in funzione delle esigenze della collettività?
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3. L’inconscio sociale, tra pandemia e happydemia
La realtà della pandemia non è soltanto !emergenza sanitaria”. È, per Mario Pezzella, una crisi sistemica, una crisi che riguarda l’intera riproduzione della società. Come se ne esce?
C’è un deficit del “politico”. La mancanza di politica, di un movimento polito, in grado di comprendere la situazione nel suo complesso, quello di una crisi del sistema capitalistico attuale, impedisce di assumere la consapevolezza che in questa crisi ne va della qualità della vita sociale, della convivenza umana.
A meno, in alternativa, di pensare che la questione – la riappropriazione della vita sociale – si risolva in una generale happydemia, nel ricorsopalliativo a psicofarmaci (ansiolitici, antidepressivi, sonniferi ed eccitanti) o alla «libertà di spritz» con gli amici, negli assembramenti senza mascherina, per compensare la tragedia dell’aperitivo mancato.
Ma è questa la solidarietà sociale in grado di ricomporre e ricostituire la soggettività, al di là di una solitudine diffusa, quell’“essere solo”, che il lockdown, l’isolamento sanitario, ha rafforzato nel relegare la vita singola davanti a uno schermo?
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4. Social media: società del capitale e inversione della realtà
Che accade alla nostra vita davanti a uno schermo? E lo schermo è sempre più quello di un dispositivo digitale, il cui potere algoritmico di manipolare i dati della nostra vita ci restituisce a noi stessi “in immagine”, sotto forma di avatar, di simulacro incorporeo dei nostri desideri.
E che ne è della rappresentazione della realtà? È possibile ancora riuscire a decifrarla al di là della sua parvenza di superficie? È possibile indagarne le dinamiche profonde che costituiscono la nostra soggettività, appunto, sempre più ridotta alla sua dimensione di monade individuale? Una soggettività per la quale, quanto più la realtà fa schifo, tanto più la società del capitale si incarica, al fine di mettere a valore la nostra vita e il nostro stesso desiderio, di apparecchiare la realtà come la più seducente possibile.
Per Mario Pezzella, essere marxista, per riuscire a comprendere cosa accade, è un’operazione che forse non basta per spiegare l’irrazionalità del sistema, ma è necessaria.
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5. Forme di socialità, tra controllo autoritario e alternativa critica
Alla gestione in forma capitalistica di produzione della ricchezza – in quella sua forma astratta che è il denaro – non frega niente dell’effettiva esistenza degli individui, e dei loro bisogni, se non a condizione che la loro esistenza sia “utile”, messa a valore, contribuisca cioè al processo di valorizzazione del capitale investito nella produzione di merci (beni o servizi che siano).
Al riguardo, è emblematica la vicenda della non sospensione dei brevetti sui vaccini, nel corso stesso di una pandemia, a favore dei guadagni dell’industria farmaceutica privata, e nonostante l’ingente partecipazione finanziaria pubblica. E, in breve, è questo ciò che si intende per gestione economico-finanziaria dell’attuale stato di crisi dell’Occidente. Che non è solo più crisi sanitaria, ma è già crisi climatica e crisi dell’assetto geopolitico del mondo.
Qual è il ruolo dei social media in questa situazione? In una situazione cioè, dove l’individualità atomizzata è la forma principale di soggettività, i social media sono davvero in grado di soddisfare il bisogno profondo di socialità, che è l’attuale forma capitalistica di riproduzione sociale della vita singola a rendere sempre più radicale? È davvero la connettività di internet, e dei dispositivi digitali che la consentono, la risposta, di fatto semplice e allettante, a quel bisogno di socialità?
Da quali contesti pratici di vita può nascere un’effettiva risposta al bisogno di «socialità diffusa», la cui gestione corrisponda ad una reale «elaborazione sociale», del collettivo – e non del potere finanziario privato – delle stesse condizioni sociali d’esistenza della vita?
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