A partire dalla riflessione di Günther Anders, per cui la definitiva affermazione del sistema capitalista, e del crescente dominio della tecnica, è totalmente incompatibile con le ragioni dell’umano e del vivente in generale, cominceremo a interrogarsi su come è mutata non solo la relazione dell’uomo con il suo ambiente, divenuto oggetto di una manipolazione illimitata, ma anche la relazione dell’uomo con sé stesso e il mondo da lui creato.
Che ne è infatti dell’essere umano di fronte all’«incapacità della nostra anima di rimanere al corrente con la nostra produzione, di muoverci anche noi con quella velocità di trasformazione che imprimiamo ai nostri prodotti, e di raggiungere i nostri congegni che sono scattati avanti nel futuro e che ci sono sfuggiti di mano» (Günther Anders)?
Che posizione è possibile prendere di fronte alla «asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti», a quella progressiva discrepanza per cui l’uomo, non più in grado di tenere il passo della «tecnicizzazione dell’esistenza», è diventato «antiquato», se non addirittura superfluo?
Insieme a Massimo Cappitti proveremo, per essere all’altezza di questo mutamento antropologico, a interrogarci su quali strumenti interpretativi e apparati concettuali possiamo disporre per ripensare e «riflettere quali nuovi tipi di rivoluzione devono essere inventati e inaugurati».
1. Dal «totalitarismo morbido» del nuovo capitalismo…
Cosa plasma la soggettività dell’essere umano a partire dalla nuova fase – a metà del ‘900 – della società capitalista, che Günther Anders definisce del «totalitarismo morbido»?
Con l’affermarsi di un mondo che non è più a misura umana forse è necessario apprendere la lezione di Günther Anders, una posizione di etica personale: quella di avere il coraggio di fissare lo sguardo sul “negativo”, sull’orrore del presente, anche e forse soprattutto se il nostro presente, per Massimo Cappitti, non è più quello del suo tempo.
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2. …alla «produzione di emergenza» come forma di governo
Per quanto potrà durare ancora l’illusione nel “progresso “, nell’evoluzione tecnologica del capitalismo, per quanto ancora la soggezione al dominio della tecnica – della macchina – che induce, secondo Günther Anders, l’essere umano a una «vergogna prometeica» di fronte alla sua stessa creazione artificiale?
O non è forse già scomparsa? Perché, in effetti, al «totalitarismo morbido» si è sostituita una modalità di governo della società, che di fronte alla minaccia della sopravvivenza – che è già inscritta nella potenza tecnologica, nella dismisura del suo progetto di dominio sulla realtà, per effetto anche di un eccesso di delega, di rinuncia all’esercizio della responsabilità sulle sue conseguenze catastrofiche – risponde con la proclamazione di uno stato di emergenza permanente.
La «produzione di emergenza» è diventata la modalità di gestione stessa dell’ordine sociale, della società. Ma allora quando a essere in gioco è la vita tutta, come è possibile guardare all’esistente senza farsi complice della catastrofe del mondo? E ciò già solo per il fatto di restare ammutoliti, «senza parole» per dire la devastazione così grande – il male – che minaccia il mondo.
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3. Vite alienate: tra responsabilità etica e ipotesi rivoluzionaria
Nella pandemia, una «situazione al limite», il mondo capitalistico sembra mostrare la sua vulnerabilità, e l’illusoria ideologia della sua «perfezione». Tuttavia, il suo potere di perpetuare l’illusione che questo società sia la sola società possibile non sembra venire meno.
La realtà non può essere altrimenti, è una parvenza che fa di noi dei «soggetti obbedienti».
È possibile uscirne? È ancora possibile una «rivoluzione» – evento politico che ha dato origine alla modernità? È possibile, nelle parole di Massimo Cappitti, una rivoluzione come «cambiamento radicale di sguardo sulle cose»? Qual è la tonalità emotiva di fondo che vincola le nostre soggettività all’immagine della vita sociale come a una realtà del mondo insuperabile?
La lettura di Günther Anders della società ci fornisce uno sguardo sulla costruzione di un soggetto che non si riconosce più nella realtà, che è lui stesso a produrre, come a una realtà propria – è uno sguardo sulla costruzione sociale di «vite alienate».
Non possiamo chiedere troppo di più, per il presente. Ma ci aiuta a tenere alta l’attenzione di fronte alla «disumanità dell’esistente», e a riflettere che il male nasce proprio dal disattendere la nostra capacità di giudizio – la nostra capacità di saper «pensare ampio» (I. Kant) – nell’esercizio di una responsabilità etica sui modi della nostra convivenza.
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4. Una riflessione sul politico: partire da sé e condizioni sociali del vivere
È possibile trovare un senso – un senso del vivere – in questo mondo che non funziona? E come soddisfare il desiderio di essere felice? Di fronte al dominio di condizioni di esistenza, che non sono sotto un comune controllo, non ci resta forse altro che «ripartire da sé», dal bisogno di ricerca di un’etica personale.
Ma allora qual è il senso da assegnare all’intreccio che tiene insieme individuo e società? È un problema che, per Massimo Cappitti, si trascina irrisolto dall’epoca della moderna filosofia politica.
(4, fine)