Nel corso della storia del pensiero – filosofico, politico, sociale – una maggioranza di autori e autrici ha inteso il «potere» come qualcosa al tempo stesso di violento e di esterno: un’entità capace (almeno nelle sue declinazioni peggiori) di soddisfare le proprie esigenze estorcendo ai sudditi, con la forza o con l’inganno, i comportamenti a lui più utili. Di fianco a questa prima lettura, però, ne corre da sempre, parallela, una seconda. Che insiste sulla costante sproporzione di forze tra chi obbedisce – «i molti», per definizione in vantaggio – e chi – «i pochissimi» o «l’Uno» – viene obbedito e, di quell’obbedienza, incamera i vantaggi.
Di fronte ai casi più plateali di obbedienza assurda, faticosa, a proprio danno (di «servitù volontaria», come il fenomeno viene chiamato a partire dal XVI secolo) la forza, la paura, la manipolazione sono sufficienti a costituire un apparato esplicativo? O dobbiamo piuttosto immaginare una qualche più intima e oscura volontà di conformarci agli ordini ricevuti, a prescindere dalla loro dannosità per noi stessi e per i nostri cari? Alcuni casi storici (un penitenziario particolare di inizio XIX secolo, degli scioperi insoliti di inizio Terzo millennio, un adolescente della prima modernità) serviranno da miccia per riflettere su uno dei più intricati problemi del vivere-insieme.
Insieme a Francesco Gallino* metteremo alla prova il nostro desiderio di conformarci a quello che qualche stagione fa si definiva l’«ordine esistente», dove forse ne va del nostro desidero di non essere dominati.
1. Perché compiamo atti di obbedienza a nostro svantaggio senza apparente costrizione?
Ne facciamo esperienza quotidiana. Siamo così asserviti al potere di un immaginario “felice” del rapporto della nostra individualità con le sue condizioni reali d’esistenza, anche quando il sistema nei cui termini si dà quella rappresentazione fagocita il nostro tempo in attività distruttive della nostra vita – la catastrofe ecologica che avanza non è più solo una probabilità –, da rimanere quasi “insensibili” al problema di “come si fa a uscire” da una situazione di dominio, e a uscirne tutti insieme, indifferenti al problema dell’emancipazione, al problema cioè di una liberazione collettiva, comune.
L’“obbedienza” a un sistema di vita che va a nostro svantaggio, che non fa il nostro interesse, è una costante del nostro stare al mondo? O è solo un fatto “contingente”, soggetto alla possibilità della ribellione?
(1, continua)
2. L’obbedienza sociale: tra algoritmi del desiderio e rivolta
È possibile pensare oggi l’«obbedienza sociale» senza un’indagine sulla tecnologia degli algoritmi, che governa la nostra vita in rete e da lì la nostra stessa vita quotidiana?
Il governo dell’algoritmo (algocrazia) che fa così presa sulle nostre vite è davvero un potere invisibile che mette a valore il nostro desiderio, per renderlo cioè ancora più funzionale al sistema capitalistico di mercato?
Qual è il nostro stile di obbedienza? In che consiste la nostra soddisfazione?
La risposta a questa domanda ha a che fare con la dinamica emozionale che regola la convivenza nella nostra società. E forse potrebbe spiegare perché oggi sia così difficile la rivolta, la possibilità di riconoscersi in un progetto comune di “disobbedienza” al dominio che minaccia la convivenza stessa, il modo di incontrarci con il vivente, umano e non umano.
E al riguardo il «gioco di pensiero» – riferito da Francesco Gallino – di Michel de Montaigne, a metà ‘500, sulla nostra società Occidentale è rivelatore.
(2, continua)
3. Excursus: obbedienza sociale, educazione e atti di resistenza
La «buona educazione» è la funzione sociale speciale del sistema educativo, di ogni istituzione educativa. Essa consiste appunto nell’apprendere premesse – valori, comportamenti – che rendono possibile la convivenza in una società. Ma niente mi potrà convincere che oggi quanto più questa funzione si è fatta universale – per tutti e ognuno – non continui a svolgere una funzione di adattamento. Anzi di «servitù volontaria», per cui vale ancora la critica del tiranno di Étienne de La Boétie, nel suo Discorso della servitù volontaria (Discours de la servitude volontaire o Contr’un, 1546-48).
«Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte, sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data, non ha potere di nuocere se non in quanto viene tollerato. Da dove ha potuto prendere tanti occhi per spiarvi se non glieli avete prestati voi? come può avere tante mani per prendervi se non è da voi che le ha ricevute? Siate dunque decisi a non servire più e sarete liberi!»
Oggi la visibilità del «tiranno» non è quella della sua incarnazione nel corpo sacrale del re. Non di meno, nella “crisi” attuale dell’ordine sociale, come non vederne gli effetti di soggezione, di asservimento a un sistema di dominio. Da dove discende infatti l’apprendimento secondo cui la competizione, il “darwinismo sociale”, è diventato la regola che governa la società degli individui?
Qual è allora il senso da assegnare all’intreccio che tiene insieme individuo e società? Di che è fatta l’interdipendenza che consente la convivenza sociale? Dall’educazione alle «buone maniere» per la sola conservazione di un sistema di governo che genera atroci disuguaglianze nella società? Che cosa perpetua la convinzione che «atti di resistenza» possibili contro questo ordine di cose siano un danno per l’interesse di coloro che ne sono «schiavi», che vivono un senso di impotenza?
(3, continua)
4. Per una «obbedienza critica»: quando obbedire o meno in un sistema di potere?
La disobbedienza non è gratis. In genere ha un costo. Anche, e forse di più, ma spesso inavvertito, è il costo dell’obbedienza, là dove l’obbedienza è l’espressione stessa della “normalità” dell’esistenza dell’individuo. In realtà, una moltitudine di individui.
È da loro che dipende l’elaborazione delle condizioni del processo vitale produttivo della società, della sua ricchezza reale, ma il cui godimento più spesso non è nelle loro possibilità – e nella crisi pandemica la cosa è risultata evidente – se non a misura di una diffusa precarietà economica e sociale della loro stessa condizione d’esistenza. Una misura che si riflette anche negli effetti psicopatologici della vita quotidiana.
È una situazione comune, che interessa la maggior parte degli individui.
Il problema è «quando». Quando è possibile uscire da una situazione di dominio? Quando è necessario organizzare una «disobbedienza collettiva», dato che non si può uscire da soli da condizioni di esistenza il cui semplice sussistere esprime la subordinazione, e la subordinazione necessaria degli individui alle loro condizioni di vita?
(4, fine)
5. Appendice – Della paura: tra asservimento scolastico e emancipazione educativa
Cosa fa più paura, obbedire o disobbedire?
E, in questa scelta, quanto il sistema scolastico – un’istituzione disciplinare costrittiva – contribuisce all’addomesticamento sociale degli individui? E quanto invece essa offre una educazione emancipante per la società tutta?
La risposta possibile dipende dalla risposta alla domanda: quale società vogliamo?
(5, fine)