Ricordi a piede libero è una autobiografia, la storia di Gianfranco Pancino. È la narrazione di una vita segnata da una doppia matrice – la passione rivoluzionaria e l’impegno scientifico – lungo un sentiero non lineare, anzi tortuoso, che è cominciato nell’azione politica con il movimento studentesco nel 1967, durante gli studi di medicina a Padova, e poi proseguito a Milano con la militanza nell’area dell’Autonomia operaia e l’esperienza del giornale “Rosso”; sullo sfondo la strategia della tensione, gli anni di piombo e l’insorgenza della lotta armata.
Imputato nel Processo 7 aprile, nel 1979, Gianfranco Pancino è costretto alla latitanza, alla fuga e quindi all’esilio. Prima Messico, poi Parigi dove, tra precarietà, attentati subiti e arresti per richieste di estradizione, riuscirà a imboccare l’appassionante strada della ricerca scientifica, acquisendo fama internazionale per i suoi studi sul cancro e sull’HIV fino a ricoprire la carica di direttore di ricerca all’INSERM e a far parte dell’équipe di Françoise Barré-Sinoussi, futuro premio Nobel per la Medicina, all’Istituto Pasteur di Parigi.
È un’autobiografia che ci interroga. Non ognuno di noi ha la fortuna di vivere tre vite diverse, e di vivere ognuna di esse con intensità – per Gianfranco Pancino, la vita appassionata della politica; la vita del fuggitivo, sdoppiata e avventurosa; e la vita rifondata, dello scienziato; ma ognuno con la propria si trova di fronte, almeno una volta nella vita, a quella sfida importante che è data dal senso del “possibile”: della possibilità di cambiare sé stesso e la società; di apprendere a vivere e non solo a sopravvivere; di riuscire a occupare un posto nel mondo, un posto desiderabile, in grado di farci sentire di non essere inutili nella società.
Con Gianfranco Pancino*, e la sua storia, ci interrogheremo insieme su questa sfida della vita.
* Gianfranco Pancino è scienziato, Direttore emerito della ricerca INSERM all’Istituto Pasteur di Parigi. È in uscita la pubblicazione della sua autobiografia, Ricordi a piede liberoper Mimesis Edizioni (2024).
Immagine tratta dalla copertina di Ricordi a piede libero, Mimesis, Milano, 2024
1. Una vita appassionata, per il rifiuto dell’ingiustizia e il desiderio di conoscenza
La storia di una vita si compone nel corso del suo farsi. È aperta all’imprevisto. Non è un processo lineare e, nel succedersi degli eventi, è mutevole nel tempo, ed è messa alla prova della ricerca di una coerenza. L’autobiografia di Gianfranco Pancino, nella sua “fortuna di vivere tre vite diverse”, dalla militanza politica allo spaesamento in un altrove e alla ricerca scientifica, ne è una dimostrazione.
Una vita, insomma, è chiamata a vivere continui processi di “adattamento” – per adattarsi al mutamento dei contesti della vita sociale e, al tempo stesso, per adattare quei contesti all’esigenza di una maggiore vivibilità. Ma se ciò che mette una vita “in processo”, per apprendere qual è il suo posto nel mondo, è la promessa stessa di un mondo migliore, cosa succede? Succede che questa richiesta – ed è la richiesta di un cambiamento radicale – trasforma la vita di un individuo, il suo impegno esistenziale, in progetto politico.
Ma perché si dia, nella vita singola, quello scarto qualitativo, il suo farsi “militanza politica”, “progetto di sovversione del presente”, di cosa c’è bisogno? Da dove nasce quel “senso del possibile”, quel sentimento di potenza nell’agire di un individuo che, per Gianfranco Pancino, è stata la forma di coscienza che si è espressa nelle lotte del “movimento” degli anni Settanta della nostra società? Una stagione incommensurabile rispetto al mondo attuale, la cui violenza – “di distruzione e di guerra, di sopraffazione e di saccheggio della terra, della natura” – consegna l’individuo a un senso di impotenza, ad un’azione senza esito, nei processi di trasformazione del mondo.
Di fronte al fallimento, alla sconfitta di quel progetto politico, a cosa fare appello, allora? Per Gianfranco Pancino, è alla vita appassionata contro il male del mondo ciò cui non si può rinunciare. E, nel suo caso, è stata la passione per la ricerca scientifica, il desiderio di conoscenza, come medico, dei meccanismi biologici che soggiacciono alla malattia, nella ricerca sul cancro del seno e sull’AIDS.
E, ancora, Gianfranco Pancino ci invita a riconosce che, pur nel “casino” di una vita, c’è bisogno di qualcosa il cui posto nella vita è importante, ed è da rivendicare con forza: è il bisogno di comunicazione, di vita collettiva e, soprattutto, di festa, “dove l’allegria investe il gruppo”, che è poi ciò che succede nel farsi dell’amicizia.
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2. Dov’è la potenza di agire collettiva per “rompere” l’armonia (che non c’è) del mondo?
Che cos’è una potenza d’agire collettiva? Ma come attivare quel “senso del possibile”– un fare in comune – al fine di promuovere comunità cooperanti, a dispetto del fatto che oggi la vita individuale si consegna all’irrilevanza come immagine speculare di un ordine sociale così pervasivo da imporsi come un’ineluttabile necessità? La possibilità di un’“autonomia” dell’agire politico – anche quando “antagonista” – è già sempre ricompresa, quando non repressa, in una sorta di “armonia prestabilita” di un ordine esistente del mondo?
Eppure, negli anni ’70, sembrò facile rompere quell’armonia del mondo – che in realtà non esiste, perché, come dice Gianfranco Pancino, non c’è alcuna armonia là dove «le disuguaglianze creano un profilo difforme del mondo».
C’è oggi ancora spazio per un progetto di lotta comune per il “possibile”, per il farsi di una “comunità diversa”? Perché, in effetti, la ricerca di spazi comuni di interesse, di vita, che non voglia mirare soltanto a garantire quei beni comuni, quei vantaggi, che altrimenti sarebbero fuori portata se il singolo individuo operasse da solo e in isolamento, richiede in ultima istanza – come si diceva una volta – di applicare il cambiamento al legame sociale stesso, a ciò che tiene insieme la società.
Intanto, si tratta di cominciare a guardare a quei “movimenti effimeri” di mobilitazione, sorti in varie parti del mondo, come le primavere arabe, soprattutto, in Tunisia, Occupy Wall Street a New York, degli Indignados in Spagna o dei Gilets jaunes in Francia. La loro rilevanza, per Gianfranco Pancino, sta proprio nel processo che li attiva, il “mettersi insieme” nel tentativo di costruire esperienze di democrazia diretta, di dare espressione a una democrazia più partecipativa.
Ma, in assenza di un tale orizzonte di senso, non ci resta che formulare la facoltà di un individuo di incidere sulla realtà altrimenti che nei termini del frammento di Eraclito, secondo cui «il carattere di un uomo è il suo destino», destino che, a leggere l’autobiografia di Gianfranco Pancino, una zingara, dalla lettura della mano, sa già anticipare?
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3. Comunità antagonista, anni ‘70 – Spaesamento individuale, oggi
Qual è il significato politico della “gratuità” di quella pratica antagonista, di “protesta”, dei movimenti politici degli anni ’70? C’era una disponibilità individuale a “mettersi in gioco” nell’adesione a un gruppo, a una comunità, un attivismo “totalizzante”, al punto da pagarne la militanza con il carcere o con la vita stessa – in un gioco che si caratterizza non già su una base identitaria, già definita, di un interesse comune, ma su una mancanza, la rivendicazione di una capacità produttiva collettiva, ancora da definire, in cambiamento.
Era la ricerca di un’espressione potenziale di un fare insieme, in comune, e di fare festa. Sullo sfondo, c’era un movimento, una dimensione collettiva che era il segno di una trasformazione storica: c’era l’anima antiautoritaria studentesca, contro l’oppressione delle istituzioni, a partire da quella della famiglia; c’era l’anima del movimento operaio in un periodo di una profonda trasformazione del modo di produzione capitalistico. In quel momento, per Gianfranco Pancino, «gli operai pensavano di sfondare i muri dell’oppressione del lavoro, e la rivendicazione di aumenti salariali uguali per tutti e di riduzione dell’orario di lavoro significava sganciare il lavoro dal capitale, semplicemente». Sulla base di questo conflitto, economico e sociale, si rese possibile la critica complessiva della società.
Cosa provoca oggi quel senso di spaesamento individuale, di impotenza – a cosa serve lottare? –, che sembra fatto apposta per ostacolare la capacità produttiva collettiva di intervenire sulla vita sociale, sulla cura reciproca, sulla gioia di vivere?
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4. Rivoluzione, una parola che manca… dagli anni ‘70
Cosa c’era di “radicale” nella conflittualità delle lotte economiche, sociali e culturali, tra gli anni ’60 e ’70? Quella radicalità che si espresse nel “lungo autunno caldo” degli anni ’70, in quella convergenza di lotta tra movimento operaio e movimento studentesco, e che cominciò a individuare nel Partito Comunista Italiano (PCI) più che un alleato un avversario.
All’epoca, quale strategica politica intraprese la sinistra istituzionale? E in piena divergenza poi dalle istanze di lotta che si erano espresse nella conflittualità di massa? Diversa fu la lettura del contesto storico di allora, e di alcuni eventi storici. In particolare, diversa era la posizione nei confronti del regime sovietico, segnato dai crimini dello stalinismo, che aveva represso le aspirazioni alla libertà «socialista» nei suoi paesi satellite (l’invasione di Praga nel 1968), e nei confronti della transizione democratica al socialismo di Allende in Cile, di cui il golpe del 11 settembre del 1973 aveva decretato la fine; questi eventi portarono il Partito Comunista Italiano (PCI) ad essere, per Gianfranco Pancino, «il motore maggiore della repressione» di quell’area della contestazione, la cui istanza era rivoluzionaria, di lotta cioè contro l’oppressione del sistema capitalistico.
La differenza di lettura era però di sostanza, su problemi di natura strutturale. Dove la differenza sta nel pensare l’alternativa, il progetto di una società diversa, in cui diviene possibile trasformare nella lotta il nesso tra le condizioni materiali del processo produttivo e le istanze di emancipazione; nel pensare, quindi, la giusta lotta contro lo sfruttamento capitalistico.
Soggettività diverse si costruirono in e attraverso quelle istanze di lotta. Soggettività, di cui Gianfranco Pancino ci dà testimonianza, aperte a spazi di confronto, di discussione comune tra generazioni sensibili alla critica dell’analisi marxista della società.
Per capire perché la parola “rivoluzione” è una parola che manca dal vocabolario di alcuni movimenti politici di oggi, forse, bisogna ripartire da quella differenza: dalla messa in discussione di quella generale dipendenza da un sistema economico, che mira a fare della vita degli individui solo e sempre un mezzo per la valorizzazione del capitale.
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5. Norme “rivoluzionarie” di cittadinanza: bisogni individuali e mobilitazione sociale
La disabilità non è più una colpa, uno stigma sociale. “La disabilità” è – sulla base di quanto stabilisce la Convezione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (2006) – il risultato dell’interazione tra persone con menomazione e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva inclusione partecipata nella società su base di uguaglianza con gli altri.
Questa definizione sulla disabilità è una “messa in crisi” del concetto tradizionale di persona? È un cambiamento di paradigma, una “rivoluzione” nel modo di guardare all’essere umano, e ai suoi bisogni? Il concetto di persona – l’affermazione cioè della sua universalità, dell’essere umano in generale come principio – è la forma di soggettività che sta alla base della visione culturale, istituzionale, giuridica della società borghese dall’Illuminismo in poi contro l’Ancien Régime, fino alla sua estensione universalista come diritto all’inclusione, alla “cittadinanza universale”.
La rivendicazione del diritto alla personalità non è tanto il problema. Il problema è credere che questo sia sufficiente. Una rivendicazione che mira al riconoscimento dei bisogni individuali, come dimostra l’esito della mobilitazione del movimento dei disabili fin dagli anni ’80 in Inghilterra, può svolgere una funzione progressiva; ma se questa posizione si radicalizza finisce per ricadere in una visione individualista, e finisce per disconoscere che la semplice sussistenza di una pluralità di individui che patiscono la restrizione dei loro bisogni è indice della loro infelice e sofferta subordinazione a quelle condizioni, di natura sociale e storica, che ne limitano l’espressione. La rimozione di quelle limitazioni può essere solo l’esito di una mobilitazione sociale, il risulto dello sviluppo dei rapporti di forza collettivi in un determinato momento storico. La sola conquista legislativa di un diritto non è ancora la sua reale applicazione.
Ora, però, in effetti, la Convenzione sposta l’attenzione da una visione “sostanzialista” del concetto di persona, a una visione “relazionale” – sull’interazione tra bisogni dell’individuo e la progettazione sociale del contesto ambientale; è uno spostamento di attenzione sul fatto che il problema delle limitazioni dei bisogni della vita individuale, come osserva Gianfranco Pancino, è l’effettiva generalizzazione del diritto al loro reale godimento. Un problema che riguarda tutti, e non solo la persona con disabilità.
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6. Scendere in piazza: la mobilitazione, ma per quale problema comune?
Ma ci sta davvero a cuore la nostra vita sociale? Perché, in effetti, la macchina economica che attanaglia la riproduzione complessiva della vita sociale – stretta com’è tra l’imminenza della catastrofe ecologica e la diffusa precarietà delle condizioni materiali dell’esistenza – è di una tale violenza, di una tale dismisura che il singolo individuo, nel tentativo di guadagnare un posto in questo mondo, finisce per “perdere l’anima”, quell’anima collettiva che fa(ceva) della speranza di dare forma a nuove regole della convivenza la misura di un progetto politico.
Cos’è che impedisce di “scendere in piazza”, di mobilitare le energie individuali per “cambiare il mondo”? Il grande mutamento di scala generato dalla tecnologia digitale che, con l’entrata del linguaggio simbolico fin dentro la sfera della produzione, è ormai l’interfaccia permanente tra l’intera esistenza di un individuo e i vari mondi della sua vita sociale, sembra produrre effetti paradossali – e proprio su questioni di rilevanza politica, ad ascoltare i giovani presenti a tavola.
Qual è infatti l’incidenza della tecnologia digitale, sussunta a un uso capitalistico (quello delle grandi piattaforme), sull’esperienza del “sentirsi insieme”, sulla modalità della convivenza? Qual è l’impatto sulla vita psichica e la condotta dell’esistenza individuale di quel senso di pervasiva socialità – la connettività, la visibilità mediatica –, che sembra invece rovesciarsi nella promozione individualista di sé, nel “marketing del sé” e nella ricerca della performance, della prestazione competitiva?
Ha ragione Valeria Palumbo, il problema è il “collante da trovare”, il “problema comune che unisce”. Anzi, di comune, al momento, sembra esserci solo la disconnessione, il venir meno del riferimento alla realtà materiale dello sfruttamento del lavoro e dell’estrazione di valore, la produzione di ricchezza economica, sulla base della sua esistenza. L’attuale “messa in discussione” dell’esistente, mentre tende ad attribuire un’impronta politica ad ogni aspetto della vita e della cultura, finisce per accettare, di fatto, la totale perdita di senso sociale e politico, quasi fosse un habitat naturale, di quel rapporto – fondamentale per guadagnarsi da vivere – che è alla base della riproduzione capitalistica della società. È la questione del lavoro salariato, come garanzia minima per la sopravvivenza – se non lavori (a quella condizione) non mangi.
La radicalità politica di alcune mobilitazioni – come quelle per l’affermazione delle “identità”, privilegiate o subalterne, poco importa – la cui ricerca di legittimazione è in prevalenza di tipo simbolico, etico-culturale, non sembra implicare più una richiesta di trasformazione materiale del sistema economico. Alla richiesta rivoluzionaria degli anni ’70 di «sganciare» l’attività lavorativa collettiva, e la vita comune stessa, dalla sua “messa a valore” capitalistica, si è sostituita la richiesta gratificante della visibilità sociale, il riconoscimento simbolico della vita individuale.
Come allora ridisegnare lo spazio politico di ciò che è possibile in fatto di riproduzione della società? Gianfranco Pancino invita a guardare alle lotte territoriali dei movimenti politici per la giustizia ecologica.
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7. Come accadde che il dott. Pancino entrò in clandestinità
Qualche breve spaccato di vita. In ognuno, una sequenza di eventi che, come in ogni vita reale, è la casualità, anzi, l’arbitrarietà dell’inatteso, a modellare. Quando però l’imprevisto è tale da segnare una svolta, una rottura dalla vita di prima e aprire la vita che viene dopo al cambiamento, all’incognita del nuovo, allora si pone un problema di che cosa permarrà di sé stessi nel nuovo contesto, nella nuova vita.
È vero, nessuno può sapere come andrà a finire… – a meno che si abbia la fortuna di incontrare una zingara che sa predire il futuro. Il problema di ciò che perdura di noi stessi è il problema di dare coerenza, di fare forma nel suo farsi, alla nostra storia. Ma da che dipende il senso di continuità di una vita? Che cosa, nel succedersi degli eventi, permette di assumersi la responsabile libertà di decidere effettivamente di sé? Come suggerisce Gianfranco Pancino, forse dipende dalle modalità dell’apprendere, e dell’apprendere a vivere, che in questa citazione, a me sembra, espresso in modo efficace:
Il dubbio può fertilizzare il pensiero. Non quello che rafforza l’inerzia, il dubbio esistenziale che diventa ostacolo alla scelta, che sprofonda l’animo nell’angoscia, ma il dubbio come forza creatrice, come spinta continua a nuova conoscenza. La domanda che dovrebbe guidare il nostro agire è: “Se non fosse così, come potrebbe essere?” La ricerca del “come potrebbe essere” è una molla potente per il progresso del sapere.
(Gianfranco Pancini, Ricordi a piede libero, Mimesis, Milano 2024, p. 419)
Quel che vale per il “progresso del sapere” forse vale anche per il nostro vivere. Perché vivere ha a che fare con contesti – i diversi mondi della vita, dall’economico al sociale, dal giuridico al politico, dall’affettivo e altro ancora – sempre aperti al possibile, a ciò che va oltre l’esistente, e alla conoscenza che se ne ha.
(7, continua)
8. Il sistema dentro di noi: soggettività resistenti e movimenti effimeri
È ormai da relegare al “c’era una volta…”, a residuo mitologico degli anni ‘70, la figura di un “soggetto rivoluzionario” portatore di un progetto di cambiamento radicale nella società? Eppure, a fronte della minaccia ecologica planetaria, la necessità di una trasformazione delle relazioni e delle strutture sociali si impone come una necessità che investe la vita quotidiana. Ma come la consapevolezza di una prospettiva di trasformazione – una condizione soggettiva – può assumere la forma efficace di un “percorso comune”, di un orizzonte di senso, per cui la possibilità di fare insieme diviene essa stessa espressione quotidiana?
Forse si tratta di considerare la persistenza di uno stato di cose – le condizioni oggettive di “squilibrio del mondo”, e di crescente riproduzione dell’ingiustizia sociale – come un problema che riguarda la coscienza degli individui circa la possibilità di resistenza, di lotta. C’è bisogno cioè di nuovo approccio per la creazione di uno spazio collettivo, dove formare una coscienza comune? A partire anzitutto dal riconoscere “il sistema che è dentro di noi”, che limita la formazione di “soggettività resistenti”, di soggettività libere dalla visione gerarchica che è alla base di ogni sistema di oppressione?
«La situazione è estremamente frammentata, e quindi è praticamente impossibile oggi tirare delle conclusioni e dare delle indicazioni o delle prospettive unitarie» (Gianfranco Pancino). Oggi, l’esistenza di movimenti di resistenza, che sono «effimeri e limitati» negli obiettivi e nella loro composizione sociale e politica, pone però l’esigenza di individuare nuove forme di lotta, di organizzazione e di riflessione comune.
C’è allora bisogno di un nuovo “metodo di studio”, di una nuova riflessione collettiva, per interrogarci su una prospettiva “militante” di trasformazione della società, a partire da interrogativi progressivi, da cui esplorare potenzialità relazionali, “forme associative adeguate”, avviare esperienze trasformative, muovere verso nuove opportunità di forme di vita, tali da rimettere in forma le regole della convivenza. Ma, soprattutto, c’è bisogno di partire dalla riscoperta di quelle emozioni che rendono appassionata una vita orientata a lottare per la realizzazione personale e, insieme, per la solidarietà collettiva – così come ce ne dà dimostrazione l’autobiografia di Gianfranco Pancino.
(8, fine)
9. Ricordi a piede libero – Momento conviviale 1
Sulla musica e la lettura dei testi di Karl Marx
Andrea Argena: – La mia domanda è: tu credi che, ad esempio, un ambito come potrebbe essere quello puramente artistico-culturale, può effettivamente avere una… far rumore, mettiamola in questi termini.
Gianfranco Pancino: – Non ho nessun commento da fare. È sicuro che anche una costruzione a livello culturale è importantissima. Anche perché è una cosa che viene comunicata al pubblico, quindi è una cosa che immediatamente si propaga. Ma certo! Non c’è nessun dubbio su questo.
Renato Tomba: – Forse tu volevi dire se può sostituire la lettura dei testi Marx? [Risate]
10. Ricordi a piede libero – Momento conviviale 2
Alla premiazione del Nobel per la medicina assegnato a Françoise Barré-Sinoussi (2008)
Gianfranco Pancino: – Il Nobel premia i progressi più avanzati della scienza in un ambiente assolutamente medioevale, l’ambiente del re e della monarchia svedese. È un ossimoro storico.