Che società, che tipo di legame sociale vogliamo? Può bastare quello di una mera coesistenza? Se la risposta è no, se pensiamo non soltanto di coabitare gli uni accanto agli altri con il rischio di scivolare nell’indifferenza, o di non riuscire, in caso di conflitto, a mantenere l’indifferenza e finire per massacrarci, se riteniamo essenziale coinvolgerci in progetti di vita condivisi, occorre che gli altri non siano soltanto «altri», ma che noi e loro siamo – e ci rappresentiamo – «simili».
Se «l’arte del convivere o la cultura della convivenza si fonda sul principio della “somiglianza”», due sono però le strategie con cui è possibile gestire la questione delle somiglianze. «La prima è quella dell’identità. Pensare al “noi” come dotato di un’identità, o come destinato a perseguire e realizzare a tutti i costi un’identità, è come immaginare una strada maestra, una via diritta, che però si tramuta in un vicolo cieco: da un lato si aumentano le somiglianze interne e dall’altro vengono recise le somiglianze con l’esterno. […]
Un’altra strategia [è] quella della ragnatela, delle tante strade laterali che programmaticamente, in base a una vera e propria “politica delle somiglianze” (Simon Harrison), connettono i “noi” agli “altri”.» (Francesco Remotti)
Ma è davvero possibile sbarazzarci della nozione di identità?
Ad aiutarci a rispondere a queste domande ci sarà Francesco Remotti, antropologo, autore di Somiglianze. Una via per la convivenza, Laterza, Bari, 2019.
Nota: Purtroppo, della registrazione della cena, la parte video è parziale, e a partire dal 6° video, a 1′: 33″, procede per fotogrammi fissi, integrata da immagini oggetto del discorso, cui durante la conversazione Francesco Remotti fa riferimento. La parte audio è invece integrale, e può essere ascoltata come un Podcast.
1. Gestazione di un’idea 1 – Contro l’identità
Francesco Remotti ci racconta le esperienze – interrogativi e scoperte – della sua vita, che sono all’origine del suo ultimo libro, Somiglianze. Una via per la convivenza (2019).
Il primo passo, il libro Contro l’identità (1996). Una presa di posizione contro l’uso in ambito sociale e politico di quegli anni – e oggi ancor più evidente – del concetto di identità.
In una logica esclusivamente identitaria, l’uso unilaterale del concetto di identità (identitarismo) riferito a un soggetto, individuale o collettivo, significa entrare in conflitto fortissimo con gli altri e significa dare luogo a quelle situazioni che è descrivibile in termini di distruzione dell’altro.
Al contrario, è dimostrabile come la vita delle società, dei soggetti collettivi sia fisiologicamente caratterizza dal ricorso all’alterità, anzi dall’“alterazione” (introdurre “altro” in noi o farci noi “altro”). Allora risulta inevitabile la conclusione che «il ricorso all’alterità (ciò che si contrappone all’identità) è qualcosa di assolutamente vitale e irrinunciabile, almeno quanto la costruzione dell’identità».
Ma, in questa chiave, il concetto di alterità rimane pur sempre catturato da una logica oppositiva e, alla fine, inevitabilmente conflittuale.
La domanda che ne seguì fu allora: è possibile fare a meno del concetto di identità?
(1, continua)
2. Gestazione di un’idea 2 – L’ossessione identitaria
Secondo passo, L’ossessione identitaria (2010), dove si dà spazio a David Hume, filosofo scozzese del ‘700, perché le analisi e le sue argomentazioni, nel Trattato sulla natura umana, sull’identità personale, secondo Francesco Remotti, sono ancora oggi utilizzabili per cominciare a fare a meno del concetto di identità.
Ma perché facciamo ricorso in maniera così massiccia al concetto di identità?
Per David Hume l’identità è una finzione, dunque un errore, ma è un errore inevitabile, di cui non possiamo fare a meno. E ciò perché è una convenzione sociale necessaria. L’idea dell’identità è infatti “funzionale” all’orientamento della nostra vita personale, così come all’ordine sociale.
(2, continua)
3. Gestazione di un’idea 3 – La forza delle somiglianze
Terzo passo, verso Somiglianze, Una via per la convivenza (2019). Come liberarsi, allora, del concetto di identità? Di quell’identità che ci viene costantemente tra i piedi? E che, in effetti, percorre l’intera storia della filosofia occidentale.
Il concetto di identità
risale all’impostazione di Aristotele, e prima ancora di Platone, un’impostazione fondata sul concetto di sostanza. Le cose, gli esseri, noi stessi sono sostanze. La sostanza è ciò che permane. Per definizione, è il permanere, ciò che non cambia. La sostanza è ciò che resiste nel tempo, ciò che non si trasforma.
C’è una evidente gerarchia tra ciò che rimane (sostanza) e ciò che cambia (accidenti). Il pensiero dell’identità è allora l’espressione di un sistema di dominio. Il tentativo di occultare ciò che ci rende soggetti alla trasformazione, al processo che rende soltanto «simili» e non «uguali» le cose, gliesseri e noi stessi nel tempo.
Per Francesco Remotti, la nostra eredità intellettuale, dai tempi del filosofo Protagora, – come documentata da Carlo Augusto Viano in La selva delle somiglianze – è fondata su questa guerra dell’«identità» contro le «somiglianze». Nella stessa scienza moderna, le somiglianze sono state messe ai margini.
Vale la pena però citare l’espressione di Michel Foucault, circa “il mormorio continuo delle somiglianze”, per ricordarci che le somiglianze non sono scomparse dalla realtà del mondo. E l’opera di Charles Darwin, L’origine delle specie, ne è una testimonianza esemplare.
(3, continua)
4. E che dire del concetto di identità al plurale?
A metà della cena, l’identità, per lo meno declinata al plurale – le tante identità –, è sembrato essere un concetto irrinunciabile. Anzi, da rivendicare, soprattutto nell’attualità del tempo presente.
Ma quest’uso dell’identità, quasi a puntellare, come dire, un’idea di soggettività, di costruzione di sé, soggetta a un’incessante trasformazione, priva di continuità, di punti di riferimento stabili, è davvero un concetto utile alla comprensione del modo in cui si fa esperienza di sé in quest’epoca postmoderna?
O, non invece, anche in questo caso, è necessario farne a meno?
(4, continua)
5. Dalla concezione dell’individuo al condividuo, in antropologia
L’immagine individuale della persona, l’idea di individuo, il cui significato etimologico è, appunto, non scomponibile, è una rarità antropologica, anzi una stranezza. L’individualismo è tipico proprio della nostra civiltà occidentale, soprattutto, nel suo sviluppo moderno e capitalistico. Francesco Remotti ne percorre in breve l’affermazione culturale fin dalle sue origini – nella filosofia di Platone – e, attraverso la filosofia cristiana medioevale,fino al pensiero moderno.
La riflessione antropologia sulla persona ci offre invece, a partire dallo studio di altre società, come quella della popolazione dei Kanak della Nuova Caledonia, una concezione dell’essere umano “dividuale”, esito cioè di un processo, una composizione, che è data da un fascio organico di relazioni, da un insieme di relazioni con altri esseri, di natura umana e non umana. È una concezione relazionale e processuale della persona.
La proposta di Francesco Remotti è allora sostituire il concetto antropologico di «dividuo» con il concetto di «con-dividuo».
Noi non abbiamo un’identità, e neppure un’identità al plurale. Noi siamo dei «condividui», dentro di noi convivono più parti, a più dimensioni. Il problema è allora la «convivenza» di queste diverse realtà, il mantenere «un po’» di coerenza nel tenerle insieme. Una cosa che non va da sé.
(5, continua)
6. Il condividuo, dalla biologia all’antropologia
La proposta del concetto di condividuo trova, per Francesco Remotti, una convergenza radicale nel concetto di simbiosi (dal greco συμβίωσις “vivere insieme”, da σύν “insieme” e βίωσις “vivere”) proprio della ricerca in biologia – dalle sue origini ottocentesche (con Heinrich Anton de Bary, 1879) alle iniziali scoperte di Lynn Margulis (1967), fino ai suoi sviluppi più recenti.
Una ricerca che si caratterizza per il passaggio da una concezione puramente esterna, tra organismi, della relazione simbiotica a una interna (teoria endosimbiontica) che, secondo Lynn Margulis e Carl Sagan, dà compiutezza alla nozione darwiniana di evoluzione (con il concetto di endosimbiosi):
“La vita non conquistò la Terra attraverso la lotta, ma attraverso la cooperazione”
Questa convergenza, tra biologia e antropologia, per Francesco Remotti, segna il superamento della visione individualistica della convivenza umana. La convivenza – l’insieme delle relazioni sociali – non «viene dopo», non è aggiuntiva ma costituiva dell’esistenza sociale dell’essere umano.
(6, continua)
7. Politiche delle somiglianze: avere il tempo
La somiglianza è, per Francesco Remotti, a fondamento della convivenza. Somiglianza e convivenza hanno in comune il criterio della relazione che ci fa simili. Una rappresentazione identitaria, come realtà sostanziale e a sé stante, non è in grado di cogliere l’estensione del problema della convivenza, che va dalla convivenza all’interno della persona umana alla convivenza con la natura non umana.
Quali sono allora i presupposti della convivenza umana? La somiglianza e la «politica delle somiglianze» – espressione coniata da Simon Harrison, un antropologo delle popolazioni della Papua Nuova Guinea. La convivenza è un’arte da apprendere, è oggetto di scelte politiche.
Politiche delle somiglianze, che sono urgenti. Perché oggi, nell’età dell’Antropocene, è a rischio, in una sorta di cecità distruttiva, la nostra stessa sopravvivenza.
Ma per riuscire a sviluppare le tecniche della convivenza, e cioè governare e amministrare somiglianze e differenze, e quelle differenze che, risultando incompatibili, mettono in conflitto i gruppi umani, occorre che si apprenda ad «avere il tempo».
(7, continua)
8. Convivenza vs coesistenza: forme della dipendenza
È vero, la categoria di legame – del legame sociale – vive oggi di uno strano paradosso. Da una parte, la nostra è la società delle reti, dell’interconnessione globale, una reciproca e universale dipendenza degli individui e delle loro attività, che ha ormai il potere di modellare l’intero assetto naturale del globo terrestre; dall’altra, questo “sistema di ricambio sociale generale”, “questo ricambio materiale e spirituale” che è, insieme, una connessione naturale, si è sviluppato finora proprio in forza dell’estraneità e dell’indifferenza reciproca degli individui. È il trionfo dell’individualismo, l’invenzione per eccellenza della modernità.
La unità sociale degli esseri umani si presenta come qualcosa di antitetico. Che mette in crisi l’idea di identità, e genera ansia nell’esperienza personale. E il senso del legame sociale sembra destinato a oscillare tra «coesistenza» e «convivenza» e, nella nostra società, fortemente individualistica, non fa che prevalere la dimensione della sola coesistenza.
Come pensare allora diversamente il legame sociale? Per Francesco Remotti, in una situazione di coesistenza, il criterio è la separazione, in quella della convivenza, è il coinvolgimento.
E, ancora, come pensare la «pienezza delle relazioni» del singolo soggetto? Se, appunto, in questa fase storica, la connettività globale sembra ergersi contro la singola persona, come non rimanere fermi alla percezione di uno svuotamento, e continuare ad avere nostalgia di una perduta pienezza?
Francesco Remotti ci offre, a partire proprio dal significato etimologico di “singolo”, un’immagine risolutiva.
(8, continua)
9. L’identità, una rappresentazione distorcente la realtà
Liquidare quindi il concetto di identità, questa, è la proposta di Francesco Remotti.
Un invito ad affrontare i problemi della convivenza con una strumentazione concettuale «un po’ più adeguata». E con un’avvertenza metodologia preliminare: la consapevolezza che la rappresentazione della realtà non è la realtà stessa, che c’è una disparità tra «come stanno le cose e la rappresentazione delle cose stesse».
L’idea dell’identità, come l’idea di individuo, è una rappresentazione distorcente la realtà.
Un suggerimento pratico. Quando ci svegliamo, guardandoci allo specchio, provare a dire: – Oggi somiglio a me stesso.
Cosa non posso far finta, rispetto a prima, che non ci sia? È una questione che riguarda il tempo. Il tempo e, soprattutto, il tempo di chi è in realtà incorporato nella mia vita.
Il problema è come riusciamo a capire che cosa non è, nella nostra esperienza, semplicemente rappresentazione o immagine. Che cos’è ciò che non possiamo continuare a ignorare, e a cui rimanere indifferenti, perché è invece la condizione stessa della nostra vita sociale? Un sorriso.
(9, fine)