Codardia e viltà sono due parole anticamente associate alla mancanza di una virtù “guerriera” come il coraggio, ma anche in una cultura sempre meno militarista e che si vorrebbe (spesso illusoriamente) “non violenta” hanno ancora un peso. L’accusa di vigliaccheria ricorre tuttora, ed è tra le più gravi, nella vita privata (per esempio nelle crisi della vita di coppia o nella fine delle amicizie) come in quella politica. E chiunque se ne senta imputato la sente come un rimprovero grave, che tocca la persona e non solo i suoi atti.
D’altra parte è difficile, ripensando alla nostra vita, non trovare momenti di viltà: si tratta di cedimenti a cui nessuno può dirsi sempre, e del tutto, superiore. Il libro Sulla viltà di Peppino Ortoleva si interroga da un lato sulla viltà come aspetto della vita umana che attraversa epoche e culture, dall’altro sul come è mutata nel tempo, in relazione ad altri valori che si sono pure modificati storicamente.
Insieme a Peppino Ortoleva* proveremo a chiederci se dalla presenza diffusa della viltà nel nostro vivere, e dal disprezzo che comunque proviamo per questi comportamenti, non possiamo trarre insegnamenti che riguardano valori di base della convivenza umana.
* Peppino Ortoleva già professore di storia e teoria della comunicazione, curatore di musei e mostre sulla società, la cultura, le tecnologie del mondo contemporaneo, ha pubblicato tra l’altro I movimenti del ’68 in Europa e in America (1998), Il secolo dei media (2009), Dal sesso al gioco (2012). Per Einaudi ha pubblicato Miti a bassa intensità (2019) e con Gabriele Balbi La comunicazione imperfetta (2023). È già stato ospite “esperto” di C O N D I R S I sul tema: Per farla finita con il ’68 (Cena n°. 46 di Mercoledì 7 Marzo 2018) e La comunicazione imperfetta (Cena n°. 90 di Lunedì 18 Dicembre 2023 con Gabriele Balbi).
Immagine: Illustrazione della prima parte del Canto III dove sono puniti gli ignavi, Priamo della Quercia (c.1403–1483)
1. La viltà, anatomia e storia di un male comune – Parte prima
Come scrive Søren Kierkegaard, in Contro la viltà, «chiunque si sforzi di conoscere davvero sé stesso dovrà ammettere di essersi non di rado colto a mostrarsi codardo». La viltà, dunque, come “male comune”, peraltro di difficile definizione, perché chiama in causa profondamente il vivere quotidiano, la vita interiore come la vita collettiva.
È davvero possibile studiare l’umanità, la pratica di una comune umanità e le sue trasformazioni, la sua storicità, senza indagarne il lato oscuro che attraversa tutta la nostra convivenza? Ma forse ne vale la pena, «soprattutto perché fa emergere una contraddizione che riguarda tutti, tra la bassezza in cui possiamo scendere e i valori in cui pure dichiariamo di credere». «Il punto di fondo è “cedimento”, la viltà è un comportamento che mette la persona in contraddizione con sé stessa».
In cosa consiste il “vizio” della viltà, della vigliaccheria? La “scena” cui relegare la viltà è solo quella guerriera del “combattimento”? È la codardia in contrasto con la virtù del coraggio in guerra? O esiste in altri scenari della vita, in pace e in definitiva in tutte le situazioni dell’esistenza? La viltà è riducibile all’emozione della paura, quale causa del cedimento, del comportamento vile? E infine la viltà ci condanna alla nostra bassezza? O, dalla viltà, insomma se ne può uscire?
Della viltà, di quella “tensione” che fa parte del sentire della nostra vita, occorre dunque parlare. E per farlo, Peppino Ortoleva ci invita ad analizzare alcuni episodi di vita di personaggi “esemplari”, tratti dalla finzione narrativa (Tersite nell’Iliade di Omero, Pietro nei Vangeli, Palla di sego nell’omonimo racconto di Guy de Maupassant) e dalla storiografia (il soldato Eddie Slovik).
(1, continua)
2. La viltà, anatomia e storia di un male comune – Parte seconda
È cambiata la viltà nel tempo? Questo male comune, che attraversa la tradizione culturale dell’Occidente, ha conosciuto una trasformazione nel tempo: se la «viltà degli antichi» era un attributo in prevalenza sociale, che toccava diversamente i nobili e i plebei, le donne e gli uomini, quella «dei moderni» è un attributo di natura più psicologica, è spalmata sull’intera umanità e apre a inedite dinamiche di potere della vita sociale.
Per Peppino Ortoleva, nel grande passaggio al mondo moderno, un evento storico, nel corso della Rivoluzione francese, è indice di questa grande trasformazione: la battaglia di Valmy, la prima importante vittoria della “plebe” rivoluzionaria nella guerra contro l’esercito aristocratico della Prima coalizione. La scelta tra viltà e coraggio non è più un privilegio di pochi, ma lo è di ogni essere umano, almeno nella forma di soggettività che è alla base della società borghese dell’Illuminismo, quella della “cittadinanza”.
Nel Settecento la concezione della viltà e del coraggio muta quindi in relazione a un cambiamento sociale radicale. Il romanzo, soprattutto per la figura femminile (Pamela o la virtù ricompensata di Samuel Richardson, 1740, Lady Roxana. L’amante fortunata di Daniel Defoe, 1724 e La monaca di Denis Diderot, 1780/1796), è insieme segnale e veicolo di questa trasformazione. Nella modernità, la manifestazione del coraggioso o della viltà diviene una responsabilità personale, una questione di padronanza di sé, di scelta, che dipende dalla possibilità di riconoscere il bene e il male a partire da una propria condizione interiore.
Allora, il tema etico della viltà e del coraggio, per Peppino Ortoleva, ci pone di fronte a un problema, quello della libertà di scelta (il “libero arbitrio”), o in altri termini, secondo la formula manzoniana, alla domanda: fino a che punto il coraggio uno se lo può dare? E lo fa nei termini di un principio etico, per cui non c’è bisogno di fare riferimento a valori astratti, religiosi, ma a qualcosa che esiste come condizione problematica della nostra stessa convivenza.
(2, continua)
3. La parola “morale”: morale dei valori e morale del vissuto
La parola “morale” è una parola sfuggente. In epoca moderna la moralità – nella cui rappresentazione viene meno il ricorso a un fondamento assoluto o religioso dei valori – è diventata una questione relativa alla soggettività dell’individuo, alla sua autonomia. È, in questa prospettiva, ancora possibile una morale, per cui un individuo è in grado di riconoscere il bene o il male, senza che sia al tempo stesso arbitraria, a rischio di un pieno relativismo etico?
Per Peppino Ortoleva, è possibile. A condizione di affermare una «morale che parta dalla contraddizione – e non dai principi»: contraddizione che abita l’essere umano, soggetto a quella tensione tra credenza nei valori e la loro messa in atto concreta, di cui la viltà è espressione.
Qual è infatti il segreto della viltà? Il suo segreto sta nel fatto di «essere un disvalore, un male che tutti consideriamo spregevole in relazione al fatto che contrasta con noi stessi», e fa emergere una contraddizione profonda che si può sentire fra sé e sé stessi, un venir meno alla propria personale dignità. Un’esperienza del male che non è di per sé rilevabile solo in relazione alle sue conseguenze nella vita pratica.
Il che significa affermare che esiste «una capacità dentro di noi di giudicare un male e un bene […] a partire dalla nostra esperienza, da un lato, e da alcuni principi che sentiamo profondamenti nostri, dall’altro». A partire da questa “discrepanza”, che attraversa il “vissuto”, è forse possibile porre il problema di una “misura comune” per un’etica utile alla convivenza umana?
(3, continua)
4. Diserzione o della viltà come resistenza a un modello di “eccellenza”?
La diserzione, per il paradigma – antico o moderno – di un’etica militarista, non è certo una virtù. È passibile anzi di essere tacciata di viltà. Se però disertare significa assumere una posizione etica – fare una scelta tra rifiuto o obbedienza – di fronte a un “ordine” che si ritiene ingiusto, allora è un atto deliberato, un proposito che richiede coraggio per essere portato a termine, e per il rischio cui espone l’esistenza.
Ma se la “viltà” – di per sé espressione di una fragilità umana – fosse invece una forma di resistenza a un modello di “eccellenza” (la virtus latina, l’aretè greca), al canone dominante che permea il contesto psicologico, sociale e culturale di una società? Fosse, la diserzione, il rifiuto di partecipare “al gioco”, a un modello di valori, il cui l’esercizio non è altro che la ratifica di un sistema di dominio?
È possibile allora fare l’elogio del “disertare”, come metafora? Disertare. Dalla guerra, dallo sfruttamento, dalla «morale borghese» dell’interesse privato, dalla razionalità strumentale del profitto, dalla crescita economica indefinita fine a sé stessa. Disertare dai limiti e dalle imposizioni di un sistema globale di governo del mondo.
Forse, come suggerisce Peppino Ortoleva, occorre sottrarsi alla strategia retorica dell’elogio, e ancor più dell’elogio dell’”eccellenza” stessa, perché la viltà che «riguarda tutti» è l’espressione di una tensione dell’esistenza, che chiama in causa il nostro vivere in società.
(4, continua)
5. La vita morale o del non rinunciare alla scelta della propria umanità
La viltà appartiene al regno della scelta individuale: tra libertà da o resa alla pressione – dei grandi apparati politici e organizzativi o delle personali tendenze all’impulsività e delle debolezze del carattere – che riduce o limita fortemente lo spazio di scelta, o mette l’esistenza a rischio. Di fronte al dilemma che la scelta comporta, il rinunciare a fare una scelta – il non “porsi problemi”– è proprio un problema di quel “male comune” che è la viltà.
Nessuno, per Peppino Ortoleva, è infatti al di sopra di ogni viltà. Come allora educare alla vita morale? Con le storie, con il genere letterario del romanzo. In una storia, come nel corso di una vita, il protagonista è posto di fronte alla prova della scelta, a dilemmi, e a volte a quello di rifiutare o accettare di fare il male, o anche solo di permetterlo. Allora ciò che viene messo alla prova è in definitiva la rinuncia o meno alla propria umanità.
Una consapevolezza, questa, che forse ci garantisce – ma non è detto – di essere immuni dalla stupidità.
(5, continua)
6. “Non c’è alternativa”: dalla disperazione al rifiuto di essere minorenni
Qual morale è in vigore nella nostra società? A fronte delle “brutture” del mondo, la sua violenza diffusa – guerra, crisi ecologica, violenza di genere, precarietà esistenziale ed economica –, c’è come una reazione di “cedimento”, una mancanza di resistenza.
Per Peppino Ortoleva, è la disperazione il sentimento che governa il presente. Un sentimento che si affida al mantra “non c’è alternativa”, uno stato di patimento collettivo che esige, come da una condizione di viltà, un riscatto? Ma di fronte a questo stato di cose, la semplice reazione di resistenza non basta, occorre, invece, «provare a pensare in termini di soluzioni», a valorizzare la dimensione affermativa della possibilità di opporsi, la possibilità dell’”emancipazione”.
Tema, quello dell’emancipazione, che per Immanuel Kant di Che cos’è sull’Illuminismo? è l’uscita da quella condizione di minorità che pigrizia e viltà rendono invece comoda. Il rifiuto di essere minorenni, per Peppino Ortoleva, significa assumersi responsabilità e assumere un atteggiamento critico, «significa pensare, sforzarsi di pensare», e di porsi problemi.
Un esercizio di sovranità che è alla base di quella forma di governo che è la democrazia, e che sta nel garantire ad ogni cittadino la partecipazione all’esercizio del potere pubblico. Cosa che nella situazione di ingiustizia, di estrema disuguaglianza del mondo attuale è sempre meno vera.
(6, continua)
7. La banalità della viltà: il colloquio di lavoro – La dignità personale e il valore di sé
Fino a che punto cedere alla propria viltà – compiere un atto che è contrario alla propria dignità – è un atto che appartiene all’umana imperfezione? Una debolezza accettabile? La situazione del colloquio di lavoro è esemplare della permanente presenza della viltà nella vita pratica: a fronte di una domanda che viola la riservatezza dei dati personali, lo stato di necessità – una condizione non facilmente aggirabile – del dover lavorare per vivere obbliga al compromesso, ad assecondarne la richiesta. È la banalità della viltà.
Quanto fino in fondo si è allora liberi di scegliere? La necessità di una carriera lavorativa è anche il tema che percorre la testimonianza di Adolf Eichmann a giustificazione del suo ruolo nel crimine storico della “soluzione finale” nella Germania nazista. Dove sta la differenza? Per Peppino Ortoleva, sta nella “gravità” delle conseguenze, nella compromissione di valori umani importanti: a cominciare dal provocare danno alla vita altrui, e rinunciare così alla propria stessa dignità. Che è una rinuncia alla propria umanità, e non solo a quella dell’altro.
Ma come il valore di sé che un individuo si attribuisce – un azzardo narcisistico – può essere preso a misura per definire che cos’è la dignità umana? In ogni caso, essere contro la viltà, per Peppino Ortoleva, non significa combattere per fare migliore il mondo, ma di certo per rendere migliori noi stessi. Ma su che cosa misurare il “miglioramento” di quella umanità che dà senso a una comune somiglianza?
(7, continua)
8. Tra conoscenza e morale: l’esperienza vissuta orientata dalle scelte
Una questione di metodo. La comprensione del mondo in cui viviamo è davvero separabile dal problema di come vogliamo starci, in questo mondo – un problema etico? La conoscenza delle scienze umane è davvero realizzabile secondo il criterio dell’”avalutatività” della conoscenza scientifica? E la stessa impresa scientifica è davvero indipendente dall’influenza di fattori di natura altra – valori di origine sociale e culturale – che non siano quelli derivabili dai processi cognitivi – valori logico-razionali – interni alla sua costruzione?
Per Peppino Ortoleva, l’avalutatività della conoscenza, da Max Weber in poi, è «una strana idea novecentesca». Non era così per l’Illuminismo per cui la conoscenza aveva anche la funzione di liberare dalla tirannide, e quindi non era estranea alla massima utilitaristica del problema della felicità (“la massima felicità per il maggior numero”). Insomma, è possibile, sulla traccia degli ultimi lavori di Sigmund Freud, porre il problema di come favorire l’affermazione dei “veri valori della vita” rispetto ad altri?
Qual è però il vantaggio di provare a «conoscere l’umanità in modo che implichi anche delle scelte di valore»? Per Peppino Ortoleva, la costruzione delle scienze sociali come impresa scientifica deve tenere insieme l’intero spettro dei processi cognitivi e le condizioni sociali entro cui si realizza l’«esperienza del vissuta» degli individui. E «far entrare l’esperienza, il vissuto degli individui – che poi significa la storia nel senso più pieno – dentro le scienze sociali, e dentro la descrizione della società» significa anche osservare che l’esperienza morale dipende, non da un sistema di valori astratti, ma dalle scelte che in concreto orientano la costruzione dell’esistenza degli individui nel tempo.
La ricerca di una connessione tra conoscenza e morale è la via per un sapere che al momento ci manca, e che riguarda la configurazione della nostra convivenza e della convivenza con noi stessi – un sapere urgente per il quale il tema della violenza umana rivela di essere, per l’attualità della sua potenza distruttiva, un problema per la nostra stessa sopravvivenza. Un problema antropologico ancora da risolvere.
(8, fine)
9. Sulla viltà – Momento conviviale 1
Dell’ultima opera: Il libro degli stronzi
Peppino Ortoleva: – Il libro degli stronzi, [risate] che tratta proprio di questo nodo umano, perché lo stronzo è una persona che non è solo vile, ma è spesso una persona che fa della sua viltà un habitus, una costruzione di sé.
10. Sulla viltà – Momento conviviale 2
La viltà per imitazione: il caso del linciaggio
Peppino Ortoleva: – La viltà nel linciaggio. Ci sono quelli che iniziano il linciaggio e ci sono tanti che si aggiungono per imitazione. Questa è una forma spaventosa di viltà.
Lorenza Patriarca: – Perché chiami viltà quello, perché per me la viltà è di quelli che non partecipano nel senso che non impediscono…
11. Sulla viltà – Momento conviviale 3
Di Giovanna d’Arco, donna eroina, e del misticismo femminile medioevale
Peppino Ortoleva: – Giovanna d’Arco è un caso estremamente interessante. Perché Giovanna d’Arco è una specie di meteora, di donna eroina, in un modo in cui le donne non dovevano essere eroine. Lei viene bruciata anche perché è una donna. […]
Lorenza Patriarca: – In quell’epoca c’erano una serie di donne… che avevano una dignità per quell’epoca straordinaria. […]
Peppino Ortoleva: – È vero. Nel passaggio dall’Alto al Basso Medioevo c’è un momento di grande fermento. Però poi si ritorna…
Lorenza Patriarca: – C’è un libro di Dacia Mariani su Santa Chiara, che appunto parla delle mistiche…
12. Sulla viltà – Momento conviviale 4
Non crediamo più in un progetto di società alternativa
Peppino Ortoleva: – …Sono leggi fatte dal capitalismo per limitare la distruttività del capitalismo. Adesso non è così. Allora molti mi dicono, questo è il neoliberismo, io dico non è il neoliberismo, è che il movimento operaio non c’è più. E se il movimento operaio non c’è più, non è perché Regan ha deciso che non ci fosse più. Il movimento operaio non c’è più per tanti motivi… […] Il capitalismo ha trionfato non per la sua ideologia, ma perché non aveva niente contro. Questa è la mia posizione: ha trionfato perché non c’è niente che gli si opponga.