Sul finire della cena si è svolta una breve conversazione sul tema del lavoro, densa però di implicazioni problematiche, non facilmente districabili, per il nostro futuro.
Qui mi concedo, ma mi sta a cuore, un’introduzione – “sproporzionata”, in molti sensi – alla brevità del video.
Qual è l’impatto dell’introduzione dell’intelligenza artificiale all’interno del processo lavorativo – ovvero della “macchina algoritmica” non più solo programmabile, ma in grado di apprendere e prendere decisioni in autonomia – sull’organizzazione della vita sociale? È il compimento di un’utopia, la liberazione dal lavoro, dall’inevitabile dimensione di “schiavitù” della produzione e riproduzione della via sociale? O, al contrario, l’avvento catastrofico di una nuova fase storica, la disoccupazione tecnologica di massa, a causa della crescente automazione “intelligente” dell’attività lavorativa?
In effetti, l’impatto sociale dell’intelligenza artificiale – a patto di non dimenticare tutto il lavoro invisibile su cui si fonda, e cioè l’immane addestramento umano, i processi di digitalizzazione, di implementazione di dati, ad opera di milioni di “lavoratori del clic” (Antonio Casilli) e di miliardi di utenti delle piattaforme – è un problema. Ma quale problema è?
In gioco c’è il modo di organizzare la vita comune. Là dove la “macchina” libera il tempo di lavoro complessivo in precedenza necessario alla produzione e riproduzione della vita sociale, il problema diventa cosa farne del tempo di vita reso disponibile. In gioco, cioè, c’è l’utilità sociale degli individui.
Che cosa rende “motivante” l’esistenza di un individuo “disoccupato”? La risposta potrebbe essere semplice: la posizione di scopo, il fine che è dominante nella produzione sociale della ricchezza materiale e intellettuale complessiva di una società. Qui, però, si apre una tensione tra due direzioni della vita sociale.
Una, è quella esistente di fatto. La sfera complessiva della vita sociale è subordinata a un processo di valorizzazione del capitale, denaro che produce più denaro, come misura di valore; il suo fine equivale a sancire l’inutilità sociale di qualsiasi potenziale attività lavorativa individuale che non si conforma a questo metodo di governo della società, la sua riduzione a lavoro salariato. L’altra, dipende dalla possibilità di configurare l’attività lavorativa come immediatamente sociale, in funzione diretta della vita in comune, della convivenza, aperta a spazi e tempi secondo una progettualità riflessiva della socialità stessa – rispondente alla domanda: che società vogliamo? In altri termini, significa subordinare la produzione sociale a un comune controllo degli individui, della vita comune stessa.
Forse il tema del reddito di base universale o del salario minimo, che non si risolva sul terreno di una semplice redistribuzione della ricchezza esistente, può rappresentare il terreno di scontro di queste due diverse finalità della produzione sociale. La prima è conflittuale, quando non distruttiva e gravida di sofferenza, fino alla sua espressione, per quanto esaltante, più mortifera, la guerra. Per la seconda, vale ciò che dice Gabriele Vacis: «L’unica cosa più eccitante della guerra è la convivenza. Trovare il modo… so che è difficilissimo, e tutte le cose difficili sono coinvolgenti, sono belle!»
PS: Questa dualità di scopo si rende sensibile nella relazione antitetica che permane nella vita della massa degli individui, l’opposizione tra tempo di lavoro e tempo di vita.
(10, fine)