Qual è il significato politico della “gratuità” di quella pratica antagonista, di “protesta”, dei movimenti politici degli anni ’70? C’era una disponibilità individuale a “mettersi in gioco” nell’adesione a un gruppo, a una comunità, un attivismo “totalizzante”, al punto da pagarne la militanza con il carcere o con la vita stessa – in un gioco che si caratterizza non già su una base identitaria, già definita, di un interesse comune, ma su una mancanza, la rivendicazione di una capacità produttiva collettiva, ancora da definire, in cambiamento.
Era la ricerca di un’espressione potenziale di un fare insieme, in comune, e di fare festa. Sullo sfondo, c’era un movimento, una dimensione collettiva che era il segno di una trasformazione storica: c’era l’anima antiautoritaria studentesca, contro l’oppressione delle istituzioni, a partire da quella della famiglia; c’era l’anima del movimento operaio in un periodo di una profonda trasformazione del modo di produzione capitalistico. In quel momento, per Gianfranco Pancino, «gli operai pensavano di sfondare i muri dell’oppressione del lavoro, e la rivendicazione di aumenti salariali uguali per tutti e di riduzione dell’orario di lavoro significava sganciare il lavoro dal capitale, semplicemente». Sulla base di questo conflitto, economico e sociale, si rese possibile la critica complessiva della società.
Cosa provoca oggi quel senso di spaesamento individuale, di impotenza – a cosa serve lottare? –, che sembra fatto apposta per ostacolare la capacità produttiva collettiva di intervenire sulla vita sociale, sulla cura reciproca, sulla gioia di vivere?
(3, continua)