«Lo fanno ma non lo sanno», recita una tradizionale saggezza. A fare, è il nostro corpo. A non sapere, è la coscienza che ne abbiamo. La nostra cecità è quella verso le emozioni che, come le definisce Humberto Maturana, «sono disposizioni corporee dinamiche», che determinano o specificano distinti ambiti di azione all’interno dei quali accade il nostro fare e il nostro vivere. Una cecità che consegue proprio dalla cultura in cui viviamo, secondo la quale l’essere umano si distingue dagli altri animali per il suo essere razionale, per la sua razionalità.
Sostenere che la ragione caratterizza l’essere umano è un paraocchi, e lo è perché ci lascia ciechi di fronte all’emozione, che viene sminuita come qualcosa di animalesco o come qualcosa che nega il razionale. Vale a dire che, se ci dichiariamo esseri razionali, viviamo una cultura che sminuisce le emozioni, e non vediamo il reciproco e quotidiano legame tra ragione ed emozione che costituisce la nostra umana esistenza, e non ci rendiamo conto che ogni sistema razionale ha un fondamento emozionale.
(Humberto Maturana e Ximena Dávila, Emozioni e linguaggio in educazione e politica, 2006)
E prosegue: Non è la ragione che ci induce all’azione, ma l’emozione. La razionalità viene sempre dopo. Non solo perché è una disposizione della vita mentale che richiede l’apprendimento di specifici strumenti cognitivi, in una lunga pratica, anche faticosa, che modella, disciplina la vita dell’intero individuo; ma anche perché quella disposizione, per essere appresa, ha bisogno degli altri, di una pratica educativa condivisa all’interno di una cultura, di una società. Ciò che definiamo razionale non si giustifica in sé stesso ma solo in funzione delle premesse culturali e sociali entro cui viviamo, e abbiamo imparato a capire qual è il nostro posto nel mondo. È l’espressione di uno specifico orientamento della vita mentale, che a sua volta riflette una specifica disposizione emotiva di controllo, di maggior distacco riflessivo sull’esperienza. E, invece, finiamo per parlarne come se fosse sollevata al di sopra di sé stessa, come se avesse una validità universale indipendente da quel che facciamo nella realtà del mondo.
Allora, nell’osservare l’altro, che cosa conosciamo da ciò che fa dell’altro? E che cosa, nell’osservare l’altro, conosciamo di noi stessi?
Su invito di Diego Iracà, cominciamo a capire che porre al centro la riflessione su cosa siamo capaci di fare, in una prospettiva più ampia, equivale a farsi carico del fatto che il mondo che creiamo insieme agli altri è il solo mondo che abbiamo a disposizione. E che di fatto questo mondo – sia che lo si voglia affermare, sia che lo si voglia negare – si costituisce a partire da quelle disposizioni corporee che sono le emozioni su cui fondiamo la possibilità o meno del nostro stare insieme.
Esplicitare che è la corporeità ciò su cui noi fondiamo il nostro stare insieme, la nostra socialità, significa riconoscere che il nostro modo di vita è la convivenza, è la condivisione; che è da come viviamo insieme – dal cibo condiviso alle parole, al linguaggio del comunicare – che conserviamo o cambiamo il mondo che abitiamo. Che lo si sappia o meno, lo facciamo in ogni caso.
Ma il saperlo non lascia le cose come prima. Imparare a osservarsi come un individuo in mezzo ad altri individui, significa riconoscere che la nostra unicità da una parte è il risultato di una storia, di un intreccio di legami, emotivi e affettivi, cognitivi e materiali, con gli altri; dall’altra che possiamo fare la differenza nell’imparare a riflettere a partire da questa prospettiva più ampia della nostra esistenza.
E se il mondo, così com’è, appunto, non ci sta bene, fare la differenza vuol dire cominciare a porsi la domanda: qual è il mondo che vogliamo?
O anche: Che cosa ciascuno si aspetta da sé stesso e dagli altri? Quali sono le aspettative, la base emozionale, che soddisfa o meno l’immagine di sé, un senso del vivere, che si è costruito, sedimentato nel tempo, e, soprattutto, nella sua rispondenza o meno a standard culturali e sociali?
È quello che cerchiamo di fare alle cene di C O N D I R S I. Dialogare mangiando è una forma di socialità, un «fare società» che esplicita la base corporea della condivisione, del nostro stare insieme. Abbiamo bisogno di fare qualcosa insieme, e abbiamo bisogno di dirci anche cosa stiamo facendo; abbiamo bisogno di dirlo con il corpo e con la parola, non solo con l’uno e non solo con l’altro.
Nel reciproco dono del cibo riscopriamo anche il potere delle parole, il potere di scoprire l’insufficienza di un significato, ma anche di ricercarne insieme uno nuovo. Se manca la parola per descrivere l’esperienza ricercata, un’emozione, una situazione, un evento, perché ancora non esiste nel linguaggio, il rischio è di ricadere in qualche cosa che trattiene dalla possibilità di avere un’esperienza nuova.
È necessario, invece, non dare per scontato in anticipo di cosa è capace un corpo, e ancor meno cosa è capace di sentire dentro di sé quando è in un rapporto con un altro che sta lì davanti. È necessario imparare ad ascoltarsi, a divenire trasparenti a se stessi.
È quello che il lavoro artistico (da cercare nel Web) di Maya Quattropani ci invita a osservare. Sono “giochi” di scambio corporeo, basati sull’abolizione del linguaggio verbale. Una semplice regola del gioco: non parlare ma trovare una reazione fisica o un fluido corporeo, come per una sorta di riduzione al grado zero dell’espressione del corpo, dove le coppie del gioco finiscono per comunicare con la saliva, il rutto, uno sbadiglio o la tosse, tutti moti del corpo. Nell’apprendere dall’esperienza del proprio sentire corporeo, da ciò che muove il corpo come suo moto vitale, e ne rinnova l’espressione, è la coscienza stessa a cambiare, a farsi coscienza corporeizzata o incorporata (embodied).
(4, continua)