Nell’offerta del pasto materiale agli dei si nasconde un’insidia. I primi, a farne le spese, i Titani, Prometeo e Tantalo, dannati a una pena eterna, per aver portato una sfida, di intelligenza e arguzia, alla scienza degli dei.
Nel banchetto materiale, si attualizza l’esperienza della socialità della nostra sopravvivenza di specie, la fragilità condivisa della nostra condizione.
Al tempo stesso, si rinnova la sfida che attenta ai doni che il cibo e le bevande riservano agli dei (l’ambrosia, il nettare o altre sostanze inebrianti): una conoscenza immutabile, una felicità imperitura, una condizione di immortalità.
In uno scambio simbolico tra materiale e spirituale, non ci basta che nel cibo si esprima ciò che ne fa quello che è: la soddisfazione di un bisogno naturale, una sostanza per una condizione di salute della nostra vita. Desideriamo di più: innalzare il cibo a sostanza per corroborare, dar forza all’intelligenza, e mantenere una promessa di felicità. E che il «sapere» sia nutriente come il cibo, appetibile come il suo sapore.
A tavola, si aggira, come Ganimede, il coppiere degli dei, il rischio del nostro destino di specie: tra debolezza e volontà di potere, tra amicizia e ostilità, tra liberazione e sottomissione.
(2, continua)