Il piacere della tavola — che per Anthelme Brillat-Savarin «è di tutte le età, di tutte le condizioni, di tutti i paesi e di tutti i giorni, può associarsi a tutti gli altri piaceri e rimane per ultimo, a consolarci della loro perdita» — è, al tempo stesso, un’offerta di piacere, se, appunto «invitare una persona a tavola significa occuparsi della sua felicità durante tutto il tempo ch’essa passa sotto il nostro tetto» (Anthelme Brillat-Savarin). La tavola è il luogo dell’accoglienza dell’altro.
A tavola l’arte della cucina, arte del combinare alimenti per il piacere di colui che mangia, è un’arte del processo che nasce dal desiderio, dalla mancanza di qualcosa, si nutre anzitutto di senso, del saper discernere e apprezzare il cibo, che non è solo il suo semplice godimento.
A che condizione, dunque, si esercita un’arte pertinente alla vita, al gusto stesso del vivere? Come giudicare la qualità dell’esistenza, il come vivere? Il gusto, la sua educazione, rimanda sempre a un senso che è una forma di conoscenza sempre impregnata dell’affettività dei nostri legami.
(2, continua)