Che cosa ingabbia l’«individuo» – il soggetto sovrano della modernità – a credere all’esistenza della rappresentazione che fa di sé: auto-centrato, autosufficiente, identico a sé stesso, in grado di fare ricorso alle proprie capacità razionali, per lo meno in stato di veglia? Come fa a trovare in sé – e non nell’intreccio delle relazioni che lo costituiscono – la propria ragion d’essere? E a convertire la relazionalità, nelle sue molteplici congiunzioni, così «difficili da sopportare» con l’altro, umano e non umano, solo in un processo puramente strumentale alla soddisfazione dei propri bisogni e alla massimizzazione del proprio interesse?
Come uscire da questa visione dell’umano? Eppure, esistono altre antropologie, altre politiche dell’umano, in mondi ai margini della nostra società. E forse, per Francesco Remotti, è dal margine di questi mondi che bisogna imparare a fare umanità per mettere ordine in quell’intrico che è il mondo.
(5, continua)