A questo punto della cena, Francesco ha posto un problema. Di non facile soluzione.
Ma, per farla semplice, la questione è questa: in genere, ci sentiamo di continuo esposti a forze ineludibili che sembrano governare le nostre vite. E il tempo è una di queste. Ma, per Francesco, parlare di questa esperienza come di qualcosa che esiste «al di fuori» e «al di là» di noi, come fa la teoria scientifica, è una fregatura.
Significa rinunciare alla possibilità, per tutti noi, di «gestire» il tempo della convivenza sociale. E quindi di porre, con legittimità, la domanda: ma che società, che mondo vogliamo?
Eppure, il tempo è una realtà che ci riguarda, cui pure cerchiamo di dare una forma, una direzione. Cerchiamo di «guadagnare tempo», di non «perdere tempo», di «impegnare il tempo» e, soprattutto, di «prevedere», insomma di «decidere» del tempo.
Prevedere il futuro, nel processo del nostro vivere insieme, sembra però la cosa che sappiamo fare meno di tutto. E quando poi, in tempo di crisi della società, ci si affida alla proiezione di modelli teorici, ricavati come da una realtà indipendente dagli individui (ad es., il mercato per la scienza economica), sembra che ne scaturiscano solo disastri.
È, di certo, come sostiene Giuliano, un problema dello stato della nostra conoscenza. Un’insufficienza dei nostri strumenti linguistici e concettuali a comprendere la realtà della nostra convivenza.
Ed è probabile che sia una questione di errore. Allora, la sua scoperta la possiamo solo delegare al tempo. Un errore lo si scopre solo a posteriori, in seguito. Il sospetto che, invece, si tratti di un deliberato inganno, a impedire l’espressione di una diversa esperienza del nostro «essere sociale», a volte è forte.
(4, continua)