La vita comune è segnata oggi da un sentimento di perdita del legame sociale. O, meglio, quella tonalità emotiva di fondo è il sintomo di una riduzione della vita sociale degli individui a una comune indifferenza reciproca. E non è facile per ognuno essere costretto a cavarsela da solo, a fare i conti con la propria solitudine.
Su che base allora costruire un’esperienza di comunanza, di ciò che tiene insieme la vita degli individui? Per Enzo Bianchi, il fondamento di unasolidarietà umana – nelle sue parole, di un vivere nella sororità e nella fraternità o in amicizia – sta nella non dimenticanza della comune condizione di mortalità.
Una meditazione, quella di Enzo, che a me non sembra contrapporre la finitezza umana a qualcosa che sta al di là, di estraneo alla vita, ma ne è al contrario la realizzazione. La natura della finitezza è tale da richiedere un lavoro di comunicazione, l’espressione infinita di una tessitura di fili – un’esperienza di «messa in relazione» – che è ciò di cui si compone la vita. Un vivere che è relazione.
Ma la difficoltà dell’individuo moderno sta proprio nel suo viversi come individuo isolato. E anche là dove la vita è «in comune», come in una comunità monastica, senza apertura al mondo, la possibilità stessa di trovare in un’attività collettiva la via di uscita dal problema di un’universale indifferenza reciproca è destinata a fallire.
(6, continua)