La diserzione, per il paradigma – antico o moderno – di un’etica militarista, non è certo una virtù. È passibile anzi di essere tacciata di viltà. Se però disertare significa assumere una posizione etica – fare una scelta tra rifiuto o obbedienza – di fronte a un “ordine” che si ritiene ingiusto, allora è un atto deliberato, un proposito che richiede coraggio per essere portato a termine, e per il rischio cui espone l’esistenza.
Ma se la “viltà” – di per sé espressione di una fragilità umana – fosse invece una forma di resistenza a un modello di “eccellenza” (la virtus latina, l’aretè greca), al canone dominante che permea il contesto psicologico, sociale e culturale di una società? Fosse, la diserzione, il rifiuto di partecipare “al gioco”, a un modello di valori, il cui l’esercizio non è altro che la ratifica di un sistema di dominio?
È possibile allora fare l’elogio del “disertare”, come metafora? Disertare. Dalla guerra, dallo sfruttamento, dalla «morale borghese» dell’interesse privato, dalla razionalità strumentale del profitto, dalla crescita economica indefinita fine a sé stessa. Disertare dai limiti e dalle imposizioni di un sistema globale di governo del mondo.
Forse, come suggerisce Peppino Ortoleva, occorre sottrarsi alla strategia retorica dell’elogio, e ancor più dell’elogio dell’”eccellenza” stessa, perché la viltà che «riguarda tutti» è l’espressione di una tensione dell’esistenza, che chiama in causa il nostro vivere in società.
(4, continua)